Gianni Berengo Gardin. Lo stile inconfondibile, il bianco e nero, la composizione e l’umanità dell’artigiano fotografo.
Gianni Berengo Gardin. In una calda sera del 6 agosto 2025, il mondo della fotografia e della cultura italiana ha salutato uno dei suoi più grandi maestri, scomparso all’età di 94 anni. La sua dipartita segna la fine di un’era per il reportage fotografico, lasciando un’eredità inestimabile di immagini che hanno saputo cogliere l’anima più autentica e spesso nascosta dell’Italia. Con una carriera lunga oltre settant’anni, Gianni Berengo Gardin non è stato solo un fotografo, ma un acuto osservatore, un cronista visivo che ha immortalato con la sua Leica in bianco e nero le trasformazioni sociali, i paesaggi, le persone e le contraddizioni di un paese in continua evoluzione. La sua opera, caratterizzata da un rigore etico e da una profonda umanità, lo ha reso un punto di riferimento imprescindibile per generazioni di fotografi e un testimone privilegiato della storia contemporanea italiana.

Gianni Berengo Gardin è universalmente riconosciuto come uno dei massimi esponenti del reportage fotografico italiano. La sua forza risiedeva nella capacità di raccontare storie attraverso le immagini, senza filtri o artifici, ma con una schiettezza e una profondità che andavano oltre la semplice documentazione. Il suo approccio alla fotografia era quello di un artigiano, un mestiere che richiedeva dedizione, pazienza e un profondo rispetto per il soggetto. Non era interessato alla spettacolarizzazione, ma alla verità, alla quotidianità, ai volti e ai gesti che componevano il mosaico della vita italiana. La sua macchina fotografica era un prolungamento del suo occhio, uno strumento per comprendere e restituire al mondo la complessità della realtà. Ha viaggiato in lungo e in largo per l’Italia, dalle fabbriche alle risaie, dai manicomi alle piazze, documentando un paese in bilico tra tradizione e modernità, tra bellezza e degrado. Le sue fotografie sono diventate icone, frammenti di memoria collettiva che continuano a parlare di un’Italia che non c’è più, ma che vive ancora attraverso il suo sguardo.
“Non ci tengo a passare per artista, l’impegno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma civile”.
Lo stile di Gianni Berengo Gardin è immediatamente riconoscibile per l’uso esclusivo del bianco e nero, una scelta non solo estetica ma anche etica. Per lui, il bianco e nero era la lingua più pura e diretta per esprimere la realtà, eliminando le distrazioni del colore per concentrarsi sull’essenza, sulla forma, sulla luce e sull’ombra. Le sue composizioni sono spesso caratterizzate da un equilibrio impeccabile, una geometria nascosta che organizza il caos del mondo in immagini armoniose e potenti. Nonostante la rigorosità formale, le sue fotografie trasudano umanità, empatia e una profonda comprensione dei soggetti. Era un maestro nel cogliere l’attimo decisivo, non nel senso di un evento straordinario, ma di un momento di verità, un gesto, uno sguardo che rivelava l’anima delle persone e dei luoghi. Tra le sue opere più significative, spicca il reportage sui manicomi italiani, realizzato negli anni ’60 e ’70, che ha contribuito in modo determinante alla legge Basaglia e alla chiusura di queste istituzioni. Le sue immagini crude e commoventi hanno svelato la dignità negata dei pazienti, la loro sofferenza e la disumanità di un sistema. Altrettanto celebri sono le sue fotografie di Venezia, una città che ha amato e documentato per decenni, catturando la sua bellezza senza tempo ma anche le sue fragilità, come l’impatto delle grandi navi da crociera. Ha fotografato il mondo del lavoro, le campagne, le città, la vita quotidiana, sempre con la stessa curiosità e rispetto, trasformando l’ordinario in straordinario.

“La sua capacità di entrare in sintonia con i soggetti, di rendersi quasi invisibile, gli ha permesso di catturare momenti di autentica intimità e spontaneità”.
Gianni Berengo Gardin amava ripetere che la fotografia era per lui “l’occhio come mestiere“, un’espressione che racchiudeva la sua etica professionale e la sua visione del mondo. Non si considerava un artista nel senso tradizionale del termine, ma un artigiano, un testimone, un narratore. La sua celebre frase “Non ho mai fatto una foto per farla bella, ma per farla vera” riassume perfettamente il suo approccio. Per lui, la bellezza di una fotografia non risiedeva nell’estetica fine a se stessa, ma nella sua capacità di comunicare una verità, di suscitare una riflessione, di lasciare un segno. Questa dedizione alla verità lo ha portato a rifiutare qualsiasi manipolazione dell’immagine, rimanendo fedele alla fotografia analogica e alla stampa in camera oscura per tutta la sua carriera. Era convinto che la fotografia dovesse essere un atto di onestà intellettuale, un ponte tra il fotografo e il mondo, tra il mondo e lo spettatore. La sua integrità e la sua coerenza lo hanno reso un esempio per tutti coloro che credono nel potere della fotografia come strumento di conoscenza e di cambiamento.
“L’eredità di un gigante, uno sguardo che continua a vivere”.
La scomparsa di Gianni Berengo Gardin lascia, come tutti i grandi artisti, un vuoto incolmabile nel panorama della fotografia mondiale, ma la sua eredità è destinata a vivere e a ispirare. Le sue fotografie non sono semplici immagini, ma documenti storici, opere d’arte e, soprattutto, testimonianze di un’umanità profonda e complessa. Attraverso il suo obiettivo, abbiamo imparato a guardare l’Italia con occhi diversi, a cogliere le sfumature, le contraddizioni, la bellezza e la fragilità di un paese che ha amato e raccontato con una passione inesauribile. La sua lezione è chiara: la fotografia è un atto di responsabilità, un mezzo per comprendere il mondo e per condividerlo con gli altri. Gianni Berengo Gardin ci ha lasciato un patrimonio visivo di inestimabile valore, uno sguardo che, anche dopo la sua scomparsa, continua a vivere e a parlarci, ricordandoci l’importanza di guardare oltre la superficie, di cercare la verità e di raccontare storie con onestà e umanità.
“Il suo occhio, ora, riposa, ma le sue immagini rimarranno per sempre a illuminare il nostro cammino”.
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