432 Hz e Anāhata Nāda: frequenze sacre per risvegliare la coscienza? Alla ricerca dell’armonia perduta.
432 Hz e Anāhata Nāda. Durante la mia modesta esplorazione delle tradizioni sonore dell’antica India, ho iniziato a percepire una sorta di filo sottile che collegava antiche scritture alla ricerca moderna, suggerendo una comprensione del suono che potrebbe andare oltre i semplici fenomeni acustici.
Nel mio studio del Nāda Bindu Upanishad, sono stato colpito dalla profondità dei suoi versi iniziali:
“Medita sul Bindu come fonte del Nāda, il suono primordiale. Sorge dall’Anāhata, il chakra del cuore, e conduce lo yogi oltre il velo dell’illusione (māyā).”
Ho riflettuto a lungo su questo concetto di Anāhata Nāda – il suono non percosso – una vibrazione cosmica che permea l’esistenza stessa.
L’Hamsa Upanishad ha rivelato un’altra dimensione:
“Il respiro (prāṇa) diventa mantra, il mantra diventa suono (nāda) e il suono si dissolve nell’Anāhata, dove l’individuo si fonde con l’Infinito.”
Il suono diventa un veicolo per l’evoluzione della coscienza.
Poi mi sono imbattuto nel Tirumantiram, dove Tirumular descrive:
“Nel loto del cuore (Anāhata), risuona il Maturai Nādam, il suono segreto che lenisce il dolore e unisce l’anima a Śiva.”
Ero affascinato da come questo testo del VI-VII secolo anticipasse intuizioni sulla guarigione attraverso il suono, collegando specifici raga a stati di coscienza elevati.
Gorakhnāth
Incontrando gli insegnamenti di Gorakhnāth nell’XI secolo, ho trovato istruzioni pratiche dettagliate. Nel suo Siddha Siddhānta Paddhati ho letto:
“Il bija mantra ‘Yam’ dovrebbe essere ripetuto 108 volte, concentrandosi sul cuore, finché il suono esterno non diventa interno e rivela la luce di Śiva.”
Penso che questo approccio si inserisca nel suo sistema di kāyasiddhi – letteralmente “perfezione del corpo” – dove le vibrazioni sonore catalizzano una trasformazione alchemica dell’essere.
Studiando alcuni degli insegnamenti di Gorakhnāth, ho cercato di capire come il suo concetto di kāyasiddhi suggerisca l’uso del suono per trasformare gradualmente il corpo fisico (sthula sharira) verso ciò che i testi descrivono come un corpo di luce (jyotir deha).
Pur non potendo affermare di aver padroneggiato queste pratiche, i miei modesti tentativi di lavorare con questo sistema – che prevede la purificazione dei nadi, l’attivazione dei chakra e la trasformazione dell’energia vitale attraverso specifiche frequenze sonore – mi hanno dato scorci della sua potenziale profondità. Attraverso questa esplorazione, ho iniziato ad apprezzare come ogni mantra possa servire come una sorta di chiave vibrazionale, potenzialmente in grado di sbloccare diversi livelli di consapevolezza.
Comprensione antica e moderna
Mi sono imbattuto nelle esplorazioni di Maria Renold. Nel suo libro “Intervalli, scale, toni e l’intonazione da concerto”, ha cercato di dimostrare come i 432 Hz inducano stati di profonda calma, mentre lo standard di 440 Hz causava una sottile irritazione. Renold ha condotto numerosi esperimenti, chiedendo ai partecipanti di valutare i loro sentimenti durante l’ascolto di musica a queste frequenze. I risultati, sebbene non universalmente accettati, suggerivano che i 432 Hz inducevano un profondo rilassamento, mentre i 440 Hz, lo standard attuale, potevano causare tensione e disagio. Renold ha ipotizzato che questa differenza fosse correlata alla maggiore armonia dei 432 Hz con le risonanze naturali.
La sua ricerca, seppur controversa, ha aperto un importante dibattito sulla relazione tra frequenze sonore e stati di coscienza, tentando di fornire una base scientifica per antiche intuizioni. Renold ha sottolineato che l’accordatura a 432 Hz era storicamente prevalente prima dell’adozione dei 440 Hz come standard nel XX secolo. Le sue indagini hanno sollevato interrogativi sul potenziale impatto dell’ambiente sonoro sulla nostra salute e benessere. Ho osservato come la sua ricerca, seppur discussa, tentasse di quantificare ciò che gli antichi conoscevano attraverso l’esperienza diretta.
Approcci diversi
Ho notato la principale differenza tra questi approcci: Gorakhnāth vedeva il suono come parte di una completa trasformazione spirituale, inseparabile da pratiche come pranayama e meditazione. Renold, invece, ha cercato di isolare scientificamente l’effetto di specifiche frequenze, sperando di trovare prove misurabili per queste antiche intuizioni.
Attraverso queste esplorazioni, sono giunto a capire che queste prospettive non si contraddicono, ma si completano a vicenda. Che si tratti del Maturai Nādam, dei mantra di Gorakhnāth o dei 432 Hz, sto esplorando diverse sfaccettature della stessa verità fondamentale: il suono è un ponte tra le dimensioni dell’esistenza, capace di trasformare la materia in coscienza, il caos in armonia.
Riflessioni contemporanee
Come ho scritto di recente in un articolo, la fisica contemporanea rivela che ciò che percepiamo come solidità è un’illusione: a livello subatomico, gli elettroni del legno e quelli della mia mano si respingono a vicenda, creando ciò che interpretiamo come resistenza solida. Non esiste un vero contatto: solo un campo di forze interagenti.
Mi trovo a riflettere: se qualcosa di fondamentale come la solidità della materia si rivela essere semplicemente l’espressione macroscopica di fenomeni più sottili, non potremmo applicare questa comprensione al regno del suono – in particolare alla frequenza di 432 Hz, o all’antico concetto di Anāhata Nāda?
Quando sono immerso in questa frequenza, o mentre medito sul chakra del cuore, potrei sperimentare la manifestazione tangibile di qualcosa di ineffabile come le forze quantistiche che legano la materia stessa? Il parallelismo sembra convincente: proprio come la nostra mano incontra ciò che percepiamo come legno solido – eppure tocca solo un’illusione di solidità – forse il nostro orecchio “tocca” ciò che appare come la realtà fisica del suono a 432 Hz, mentre si impegna con un portale verso dimensioni di coscienza più sottili.
“Chi medita sul Nāda, il suono cosmico, scopre che la materia è un riflesso: come il legno è vuoto, così ogni fenomeno è vuoto”
(Shiva Samhita, 3.17)