Giacomo Leopardi: poeta permaloso e dissacrante, apre le porte al Vero

Giacomo Leopardi: poeta collerico, permaloso e dissacrante che apre le porte al Vero. Ovvero l’irascibile infinito.

Giacomo Leopardi era un uomo spinoso. D’altronde non ci si poteva aspettare di meno da un uomo così intelligente e, al contempo, tanto afflitto e vessato nel corpo. Nonostante il suo “pessimismo” derivasse da una constatazione cruda, da una riflessione attenta, filologica e sincera sui fatti della realtà, la statura di un metro e quarantotto centimetri (più o meno), le due gobbe, posteriore e anteriore e varie, seccanti, patologie degli apparati gastrointestinale e respiratorio, devono in qualche modo aver inciso bruscamente sul suo carattere facilmente irritabile.

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“Sensitivissimo, come niuno fu mai tanto, alla lode ed al biasimo, sarebbe un impossibile il fare intendere a quali eccessi di amore corrivo o di odio furibondo potesse sospingerlo o l’una o l’altro”, racconta Antonio Ranieri nei suoi “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi” (1880), un libro squisito, fortemente criticato al tempo per gli intimi particolari narrati (Leopardi aveva i pidocchi e la colite, e non amava lavarsi), menzognero quando parla di soldi, ma, a suo modo, sincero. Leggetelo, se non l’avete già fatto. Nel memoriale, Ranieri racconta tanti episodi che mettono in luce l’irascibilità del recanatese. Ricorda, ad esempio, di quando Leopardi tolse il saluto all’amico e poeta napoletano Alessandro Poerio (ucciso in battaglia nel ’48 a Venezia, puveriello) solo perché questi aveva lodato in sua presenza Niccolò Tommaseo, acerrimo avversatore di Leopardi (“Di lui, nel Novecento non si ricorderà più neanche la gobba”); o quando, riferendosi proprio al Tommaseo, l’autore dell’Infinito sentenziò trivialmente: “Mi prudono i tommasei”.

Leopardi era un uomo sconfinatamente colto, marchigiano sanguigno, volitivo e intransigente (soprattutto se si trattava di rinunciare ai suoi adorati sorbetti al limone, come il medico prescriveva severamente). E, poi, Leopardi era pur sempre un nobile, Conte d’un casato che vantava addirittura un’ascendenza romano-bizantina nella figura di Thomaso il Leopardo (avo anche di Giuseppe Tomasi di Lampedusa). La sua aristocrazia, di pensiero e di nascita, lo distanziava, in un modo o nell’altro, da tutto il resto.

Leopardi amava essere corrosivo, fino alla perfidia. Quanti esempi nei suoi versi! “Le magnifiche sorti e progressive” di cui si fa beffa nella Ginestra (ed era pure suo cugino, Terenzio Mamiani, ad aver ideato la formula!); il “natio borgo selvaggio” e la “gente zotica, vil”, con cui taccia Recanati e i suoi compaesani nelle Ricordanze; lo “enorme pelo, segno salutare, prima luce della famosa età che sorge” nella Palinodia al marchese Gino Capponi, quando si fa beffe della moda liberale di portare le barbe lunghe, intendendo che i valori della cultura e, soprattutto, delle risibili speranze delle età presente, fossero concepite dagli intellettuali come direttamente proporzionali alla lunghezza della barba e dei baffi.

Tuttavia, dove Leopardi è più agguerrito nella sua dissacrazione è nei “Nuovi credenti”, un capitolo in terza rima risalente al periodo napoletano (1836 circa, un anno prima della morte), componimento che, a causa proprio della sua causticità, Ranieri decise di espungere dall’edizione dei Canti da lui curata per Le Monnier nel 1845.

Dal film “Il giovane favoloso” di Mario Martone.

Nella poesia, Leopardi satireggia contro gli intellettuali napoletani convertiti al cattolicesimo liberale (i “nuovi credenti”, appunto). Conviene leggerla per capire:

“Ranieri mio, le carte ove l’umana
Vita esprimer tentai, con Salomone
Lei chiamando, qual soglio, acerba e vana,
Spiaccion dal Lavinaio al Chiatamone,
Da Tarsia, da Sant’Elmo insino al Molo,
E spiaccion per Toledo alle persone.
Di Chiaia la Riviera, e quei che il suolo
Impinguan del Mercato, e quei che vanno
Per l’erte vie di San Martino a volo;
Capodimonte, e quei che passan l’anno
In sul Caffè d’Italia, e in breve accesa
D’un concorde voler tutta in mio danno
S’arma Napoli a gara alla difesa
De’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni
Anteposto il morir, troppo le pesa.
E comprender non sa, quando son buoni,
Come per virtù lor non sien felici
Borghi, terre, provincie e nazioni.
Che dirò delle triglie e delle alici?
Qual puoi bramar felicità più vera
Che far d’ostriche scempio infra gli amici? (…).

Però, i Napoletani non tardarono a dar risposta al Conte, ed è sempre Ranieri a parlarcene: “Ma chi si crede di essere questo Leopardi? Questo rachitico gobbo davanti e di dietro, catarroso e colitico, che beve solo caffè e mangia gelati e confetti? Crede d’essere un uccello che vola più alto degli altri”,
“Ma che più altro degli altri! Al massimo può essere l’uccello padulo.”,
“E chi è quest’uccello padulo?”,
“Quello che vola all’altezza del culo!”.

Dal film “Il giovane favoloso” di Mario Martone.

Leopardi, dunque, vive con sagace e bellicoso stoicismo questa sua personalissima guerra contro quel mondo intellettuale non tanto gretto, quanto miope, offuscato dalla vanità delle speranze del Progresso (la chimera, “croce e delizia” del XIX secolo). Il Vero è lì, evidente, inalienabile. “Tutto è nulla, solido nulla”, ed è proprio questa certezza che consente a Leopardi di vivere un’esistenza consapevole e priva di sterili illusioni. L’unica arma resta l’ironia, poiché “il mondo ama non di piangere, ma di ridere”. Al recanatese, fa da eco un suo conterraneo e contemporaneo, Gioachino Rossini, marchigiano sangue caldo pure lui, che ebbe a dire, vuole la leggenda, che “mangiare, amare, cantare e digerire sono i quattro atti di quell’opera comica che è la vita”. Il Conte amava Rossini. Ce lo conferma pure Citati nel suo Leopardi. Assistette alla messa in scena della Donna del Lago al teatro Argentina, a Roma, nel ’23. Gli piacque assai, anche se trovò l’opera un po’ lunga (6 ore!) e se ne lamentò per lettera col fratello Carlo.

Tomba di Giacomo Leopardi a Napoli.

Rossini e Leopardi sono due inguaribili innamorati della vita, che nell’Arte hanno trovato un filtro alle sciocchezze e alle insulsaggini degli uomini. E sono pure affini nell’ironia. Basta ascoltare il celebre Largo al factotum del Barbiere di Siviglia. C’è la stessa prosaica, satirica, incisiva e svelta sagacità che portò Leopardi a scrive “S’arma Napoli a gara alla difesa/de’ maccheroni suoi”. Ascoltiamo:

Insomma, Giacomo Leopardi ci restituisce ancora oggi intatto un messaggio universale. La sua ironia, sottile, squisitissima, la sua permalosità quasi fanciullesca, restano uno strumento di adesione al Vero e di distacco sicuro e intransigente dalle facili illusioni dalle quali né i tempi né la cultura salveranno gli uomini senza consapevolezza, perché “nobil natura è quella/che a sollevar s’ardisce/gli occhi mortali incontra/al comun fato, e che con franca lingua,/nulla al ver detraendo,/confessa il mal che ci fu dato in sorte”.

Statua di Giacomo Leopardi a Recanati.

E quando anche la coscienza dovesse risultare insufficiente a fugare il pur lecito sgomento innanzi al Vero e il riso restar monco sulle labbra, ci resta la matrice, l’origine delle cose, la certezza dell’Universo, la cosmica armonia del Tutto. In una parola, l’Infinito:

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.”

E dopo i versi immortali, non resta che sprofondare davvero oltre Giove, parafrasando Stanley Kubrick, con questo brano Pink Floyd – Shine on you crazy diamond, che, credo, sia l’esatto equivalente musicale delle più sublimi ed esilianti vette della Poesia di Giacomo Leopardi:




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