Intervista al cast di Ultras: il nobile tribalismo dei personaggi di Francesco Lettieri.

Intervista al cast di Ultras: il nobile tribalismo dei personaggi di Francesco Lettieri

Intervista al cast di Ultras: gli ultimi guerrieri e il nobile tribalismo dei personaggi del giovane regista Francesco Lettieri.

Intervista al cast di Ultras: gli attori Pasquale Cerza alias “Michelone”, Antonio Russo “‘O ‘Mericano” e Salvatore Pelliccia “Barabba” raccontano la propria esperienza sul set. Il 28 marzo scorso, è apparso un articolo sulle nostre pagine, riguardante l’opera di esordio del regista napoletano Francesco Lettieri, Ultras. Cercando di fugare le facili e superficiali interpretazioni alle quali alcuni, aspri critici hanno sottoposto il film, ho tentato di analizzare la pellicola sottolineando alcuni aspetti che ne fanno, tengo a ribadirlo, la storia di una purezza che non sa esprimersi, calata in una realtà socioculturale, come quella di Napoli, tendente a volte alla miopia nei riguardi delle proprie più intime e intestine pulsioni. Il messaggio, in effetti, pare abbia colto nel segno: sono stati diversi, infatti, gli attori del cast ad avallare le osservazioni, condividendo l’intervista sulle proprie pagine social. Tra questi, Aniello Arena, protagonista del film.

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Ho avuto anche modo di parlare con alcuni di loro, specialmente con Pasquale Cerza, interprete di Michelone ‘o Gigante nella pellicola. Cerza ha sottolineato, tra l’altro, l’importanza della tipizzazione a cui sono stati sottoposti i personaggi, che non risultano meri stereotipi e assumono caratteristiche definite e definibili, così da restituire intatte le peculiarità di questo atavico sistema tribale di cui sono gli agenti e in cui la definizione del ruolo corrisponde all’identità stessa, perché, come sosteneva Pasolini: “Napoli è una tribù che ha deciso di non arrendersi alla cosiddetta modernità, e questo suo rifiuto è sacrosanto”.

Cerza definisce il proprio Michelone “uno spirito libero, silenzioso, pronto a tutto per difendere i suoi fratelli di fede” e tiene a ribadire più volte la condizione di Daspo che, oltre alle “vite particolarmente complicate”, accomuna gli “anziani” del gruppo. Il Daspo è un marchio di Caino che, anziché siglare l’abbiezione del segnato, diventa simbolo di comunione di questi uomini davanti alle norme castranti della società. Un ulteriore emblema tribale, insomma. Cerza aggiunge: “La violenza è un qualcosa che ha accompagnato i Daspo per la vita. La causa principale è il contesto sociale in cui sono cresciuti. La violenza arriva loro malgrado, arriva perché è l’unica cosa che i ribelli possono capire”.

I ribelli… tutti i personaggi di quest’opera sono testimoni col loro stesso essere di una latente e assoluta ribellione. È una ribellione nei confronti del sistema sociale e civile, ma anche verso un mondo spirituale che tenta di soggiogare i loro ideali. Il loro spirito di sedizione non è dissimile, come sottolineato nella mia precedente intervista, da quello che accomunava i Popoli Italici, come i guerrieri sanniti che si batterono contro i romani, nel corso delle Guerre Sannitiche.

Romani intrappolati dai Sanniti, nelle Forche Caudine.

La loro era, ed è in questi cuori, difesa d’una fede che resta salda nell’anima, come un organo imprescindibile alla macchina del gruppo e dell’individuo. “L’amicizia tra i sei Daspo va oltre l’essere ultras. Ognuno ha un ruolo, ognuno sa quanto e come può essere utile nell’economia del gruppo”, ribadisce Cerza.

Insomma, il gruppo, gli Apache si muovono come un unico organismo, compatto e coeso. “Tu sei una sola famiglia: in quel momento diventi una sola cosa”, conferma Antonio Russo, ‘o Mericano nel film. Russo ha un passato di ultras alle spalle. “Allo stadio si faceva tanto, tanto lavoro – racconta – ad aggiustare i drappi, gli striscioni, le bandiere, aspettando l’inizio della partita, fino alla fine. In quel frangente, tu eri dentro quella situazione, dentro quella palla, come la voglio definire adesso. Una macchina collaborativa al 100%”. L’Apache è un guerriero, anche perché si conoscono da bambini. Sono cresciuti insieme. Significa avere qualcuno al di fuori delle mura domestiche che sia la tua famiglia”, dice invece Salvatore Pelliccia, interprete del personaggio di Barabba. Pelliccia è un veterano, con una carriera ultraventennale come attore, musicista e regista teatrale. Ha militato nelle compagnie di Sara Sole, Vincenzo Maria Lettica e Antonella Monetti; ha lavorato al fianco di attori del calibro di Leo Gullotta e Lino Banfi, recitando in serie televisive e produzioni cinematografiche. Insomma, Pelliccia sa bene come restituire l’identità sofferta del suo personaggio.

L’immedesimazione con il popolo altro, con l’etnia preesistente, nativa, combattiva e irriducibile, è comune in questi individui. L’Apache è un guerriero, ammette Cerza. “Cos’è un Apache? Facendo fede al mio nome, ‘o ‘Mericano, gli indiani sono i veri americani… i nativi americani”, conferma Russo. “Gli Apache sono stati gli ultimi guerrieri ad arrendersi alle giacche blu. Siamo quelli che non si arrendono mai. L’Apache non si arrende mai”, sostiene Pelliccia.

Gli ultras del film di Lettieri, in particolar modo quelli che Cerza definisce gli “anziani”, sono fieri soprattutto di questa consapevolezza, di essere gli ultimi, i superstiti di un mondo di leggi comunitarie, tribali, ormai scomparso. Proprio come gli Indiani. L’epoca della loro lungimiranza è tramontata. Le regole umane, poco a poco, si sono sostituite a quelle naturali, nell’illusione di un sovvertimento antropocentrico. E così, come gli Apache di un tempo, l’unico strumento di difesa è la violenza, una violenza spesso brutale, cieca.

“Tutta questa violenza è data da quello che c’è intorno e non sarebbe nemmeno necessaria. Il tifo è un canale di sfogo. È come picchiare il mondo. Ce la prendiamo con chi non dovremmo prendercela”, sottolinea Pelliccia. “La violenza è quando si viene attaccati”, conclude lapidario Russo.

Intervista al cast di Ultras: La riserva in cui sono confinati gli Apache, così come gli aspri e remoti appezzamenti entro i quali i Romani, dopo la vittoria, reclusero i Sanniti, è una polveriera. La loro tragica ferocia è il risultato di questa coazione. Sono come bimbi sperduti, puri e selvaggi, che necessitano del gruppo per esistere davvero. “Barabba è un bambino che ha bisogno di sentirsi aggregato a qualcosa e quando si aggrega a qualcosa, questo diventa tutta la sua vita. Potrebbe trovarsi tranquillamente sull’Isola che non c’è insieme a Peter pan, altrimenti”, sostiene, ad esempio, Pelliccia.

L’opera di Lettieri, dunque, così come le opere di Pasolini, lungi dall’essere una mera riflessione sulle tifoserie organizzate, racconta di questa umanità ai margini in cui si riconoscono i semi dei primordi, di questo mondo antico, legato alle leggi del Fato e della Natura, che la modernità ha tentato e tenta in tutti i modi di ridurre e annichilire. In questi giorni di coazione in cui tutti noi ci troviamo a causa del contagio, nell’ora del sovvertimento di quelle norme della quotidianità che credevamo inviolabili, i personaggi di Ultras possono illuminarci sul valore simbolico di questa apocalisse, di questa rivelazione che stiamo vivendo: le leggi umane restano inerti davanti ai poteri della Natura, sono soltanto un’illusione.

Il monito degli Apache, non è un grido di nichilismo, distruzione: è un monito di consapevolezza sulla finitudine delle azioni umane. Gli ultimi guerrieri, i nativi, ci rammentano le origini della nostra specie, che pare si vogliano inutilmente dimenticare. Alloca cosa diventa la loro violenza se non un atto di ribellione a queste regole d’oblio e cecità in cui la società sembra volerci tutti assoggettare?

Intervista al cast di Ultras: Allora, proprio come gli antieroi di Pasolini, e penso anche di Claudio Caligari, la sofferta e fiera umanità degli i nativi americani è un messaggio destinato al dopo, al futuro che ci aspetta oltre il velo di Maya dell’epidemia: dobbiamo essere coscienti della fatalità, delle leggi naturali, delle nostre origini irriducibili, perché solo la consapevolezza del seme antico darà in avvenire rigoglio alle sue gemme.

Stefano Cortese



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