Recensione de La pietra della follia di Benjamín Labatut

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Recensione de La pietra della follia di Benjamín Labatut. Cercavo un nastro di Möbius ed ho trovato verdure cotte a bagnomaria.

La pietra della follia. Quando ho visto l’ultimo Adelphi di Labatut sulla mensola della libreria, mi sono avvicinato con quella familiare aspettativa che la casa editrice milanese ha saputo costruire in anni di pubblicazioni straordinarie. Solo poche settimane fa mi ero perso tra le pagine dell’I Ching, ennesima gemma del catalogo Adelphi, e speravo di ritrovare quella stessa vertigine intellettuale.

Il titolo prometteva bene: “La pietra della follia”. Mi sono immaginato un viaggio nelle profondità della mente umana, uno di quei percorsi che solo Adelphi sa regalarci, dove realtà e visione si confondono fino a perdere i loro confini. Mi aspettavo di trovarmi di fronte a un nastro di Möbius narrativo, uno di quei libri che ti costringono a mettere in discussione ogni certezza.

Invece

Invece mi sono ritrovato davanti a un testo che, pur cucinato con ingredienti pregiati, sembra preparato con troppa cautela, come verdure cotte a bagnomaria. La scrittura di Labatut è indubbiamente raffinata – e la traduzione di Lisa Topi ne preserva ogni sfumatura – ma mentre voltavo le pagine sentivo crescere una sottile delusione.

Non fraintendetemi: ci sono momenti di autentica bellezza. Quando Labatut intreccia storie personali con le grandi domande della scienza, quando fa dialogare il caos con l’ordine, emerge il suo innegabile talento. Ho sottolineato diversi passaggi, ho piegato alcuni angoli delle pagine. Ma ogni volta che mi preparavo al salto nel vuoto, ogni volta che mi aspettavo di perdere l’equilibrio, ritrovavo invece un terreno fin troppo solido sotto i piedi.

Timido

È frustrante, perché gli elementi per un’opera memorabile ci sono tutti. La ricerca è impeccabile, l’ambizione è nobile, la struttura è ben congegnata. Eppure manca quel quid, quella scintilla di follia che avrebbe potuto trasformare un libro ben fatto in un libro indimenticabile.

Mi ritrovo a pensare agli altri volumi Adelphi che popolano i miei scaffali, a come molti di essi mi abbiano cambiato, sconvolto, illuminato. Questo libro invece scorre via educatamente, quasi timidamente. È come se Labatut, nel tentativo di controllare il caos che vuole raccontare, finisse per addomesticarlo troppo.

E quindi?

La pietra della follia del titolo rimane un oggetto distante, un reperto da museo, mentre io cercavo uno strumento vivo, tagliente, pericoloso. Volevo perdermi in un nastro di Möbius e mi sono ritrovato in una sala da tè. Non è spiacevole, per carità, ma quando si aprono le danze con un titolo simile, quando si viene pubblicati da una casa editrice come Adelphi, l’asticella si alza inevitabilmente.

Chiudo il libro con la sensazione di aver assistito a un esperimento troppo controllato. La follia vera, quella che squarcia i veli della realtà, quella che ci mostra l’abisso e ci ci costringe a guardarlo, resta fuori dalla porta. Forse per pudore, forse per eccesso di cautela. E così, mentre ripongo il volume accanto ad altri Adelphi più memorabili, non posso fare a meno di pensare che questa volta la temperatura sia rimasta troppo tiepida, come quelle verdure cotte a bagnomaria quando invece si sperava in una fiammata.

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