Siamo fiori dello stesso giardino: raccolta di racconti per unire Italia e Cina

Siamo fiori dello stesso giardino: raccolta di racconti per unire Italia e Cina, edito Fiori d’Asia Editrice.

Siamo fiori dello stesso giardino è un’antologia di racconti appena uscita in libreria, edita dalla bresciana Fiori d’Asia Editrice, giovane e innovativo marchio editoriale specializzato in letteratura orientale e cinese, diretto dalla sinologa e scrittrice Fiori Picco. La raccolta prende il titolo da una frase di Lucio Anneo Seneca, divenuta il motto della solidarietà sino-italiana durante la pandemia, quando apparve sulle scatole contenenti le mascherine inviate in Italia dalla Cina. Dodici racconti che si dipanano attraverso dieci tematiche: medicina, lotta, solidarietà, amicizia, famiglia, cucina, tempo, speranza, immigrazione e viaggio; scritti dai bambini della scuola elementare “Shazi Tang Xiangtian” di Changsha, nella provincia dello Hunan e tradotti in italiano da un gruppo di giovani e talentuose traduttrici. Il progetto è stato ideato, diretto e curato dalla sinologa e traduttrice Maria Ferrara, che ci ha rilasciato quest’intervista.

Come è nato il progetto Siamo fiori dello stesso giardino?

“Innanzitutto vorrei ringraziare Cristiano Luchini e Crono. News per avermi dato la possibilità di parlare del mio lavoro. Siamo fiori dello stesso giardino è un progetto nato durante la pandemia. Lo spirito è stato quello della promozione dell’integrazione tra la cultura Italiana e quella cinese. In qualità di sinologa, ho svolto l’attività di mediatrice culturale in vari ospedali del napoletano e di interprete per l’associazione “Ciao Cina”, perciò sentivo l’esigenza di fare qualcosa, di dare il mio contributo. Al tempo, infatti, era atteso dalla Cina l’arrivo di un team di medici esperti e pensavo perciò di offrire il mio supporto linguistico per facilitare la comunicazione. Iniziai così a inviare il mio curriculum, ma nessuna delle mie mail ottenne un seguito. Capii che quello, forse, non era il mio destino. Una mattina ebbi l’idea: creare un progetto che potesse permettere ai traduttori come me di esprimersi.

Nello scenario italiano in cui mi trovo a operare, ho notato che ci sono tantissime persone talentuose che, o perché non sono nei giri giusti o perché non hanno le giuste conoscenze, non hanno la possibilità di svolgere le attività di interpretariato e traduzione. Questo progetto nasceva, dunque, dall’esigenza, da un lato, di permettere anche ad altri traduttori di esprimersi e, dall’altro, di creare qualcosa di nuovo, di fresco, un po’ in contrapposizione con ciò che già c’è, i soliti bandi che hanno procedure troppo burocratizzate e dai quali, spesso, non si ottiene alcuna risposta. Proprio per questo motivo decisi di contattare Fiori Picco: la sua casa editrice incarna perfettamente lo spirito innovativo e lungimirante che anima il progetto. Ho pensato di creare un bando che rispondesse esattamente alle esigenze dei traduttori. Infatti, durante lo svolgimento del progetto, si è attuato un vero e proprio lavoro di comunione, dove non c’erano differenze, ma solo sinergie. Inoltre, Siamo fiori dello stesso giardino voleva essere una risposta positiva al periodo della pandemia, un’esperienza del tutto nuova. È stato un tentativo di dare respiro a qualcosa che sarebbe potuto essere asfissiante.”

Maria Ferrara.

Qual è l’importanza della mediazione linguistica nella creazione di legami interculturali solidi?

“La mediazione linguistica è tutto. Essa è il presupposto di vitale importanza per poter rendere una comunicazione fruibile tra paesi che hanno culture e lingue diverse. Ogni paese porta con sé un bagaglio culturale che risiede nella lingua stessa. Se si conosce la lingua, si può conoscere quella cultura. Ricordo ancora quand’ero all’università che, inizialmente, nell’approcciare con la lingua cinese, una lingua molto difficile, cercavo di farlo coi miei mezzi, ottenendo, tuttavia, risultati non ottimali. Poi, grazie anche all’insegnamento dei docenti e alla frequentazione dei cinesi, capii che per parlare bene questa lingua era necessario soprattutto pensare “alla cinese”: solo in questo modo sarebbe stato possibile ottenere un livello avanzato. La lingua cinese possiede delle sfumature che rendono il pensiero “visibile”. Lo stesso carattere è un disegno.

Ci sono dei caratteri che esprimono certe sfumature che, in italiano, noi non useremmo, che servono, appunto, a rendere visibile ciò che si pensa. Mi viene in mente, ad esempio, la costruzione del direzionale, che in italiano non utilizziamo. Come possiamo quindi diventare parte integrante di quel modo di pensare? Faccio un esempio: se a tavola si è con commensali cinesi, afferrare le bacchette e pronunciare “haochi”, “buono”, può fare la differenza. Le barriere si accorciano e si diventa cinesi a metà. Solo così è possibile attuare la vera mediazione, che è di vitale importanza per instaurare ogni tipo di comunicazione “cross cultural” “.

Siamo fiori dello stesso giardino.

Nella prefazione al libro tu definisci la Cina come un paese “dalle sfumature ora vivide, ora impalpabili”. Cosa intendi?

“Questa particolarità deriva da una considerazione: la differenza che risiede tra il sistema filosofico occidentale e quello orientale. Quella occidentale è una cultura dualistica che, alla maniera platonica, mette in contrapposizione due mondi. È una filosofia dello ”aut aut”, “o questo o quello”. Al contrario, la filosofia cinese, ma in generale quella orientale, è una filosofia che si bassa sul precetto “not only, but also”, “non solo, ma anche”. Non essendoci il dualismo, ma un sistema di pensiero che si basa sul Taoismo prima e sul Confucianesimo poi, la filosofia cinese tende a unificare gli ossimori, a ridurre gli opposti. Per questo motivo, agli occhi di un occidentale, la Cina a volte non è comprensibile. Prendiamo ad esempio il Taoismo: all’interno dello Yin c’è lo Yang e viceversa. Non esiste, dunque, solo accettazione dell’opposto, ma una vera e propria compresenza. È questa la differenza sostanziale. Per comprendere a fondo la Cina, dobbiamo liberarci dal nostro sistema di pensiero, che ci fa interpretare la realtà come bianca o nera, per accogliere l’idea che esista il grigio, ovvero la sfumatura.”

Foto di Federica Bareato.

Qual è secondo te il rapporto della città di Napoli con la Cina e quanto è integrata la comunità cinese in città?

“Il rapporto tra Napoli e la Cina è longevo. Prendiamo ad esempio l’ateneo dell’Orientale, considerato come il più antico centro di sinologia e orientalistica in Europa. Esso ha origine dal lavoro svolto dal missionario e sinologo ebolitano Matteo Ripa che, nel 1724, in ritorno da un’esperienza in Cina, fondò a Napoli il “Collegio dei Cinesi”, un istituto religioso per la formazione di giovani cinesi destinati all’evangelizzazione nella loro terra natia. Ancora oggi, tra Capodimonte e la Sanità, esiste un luogo denominato in dialetto “’ngoppa a ‘e Cinesi”, laddove aveva sede il Collegio e risiedeva la comunità mandarina. Questa antica istituzione rende il rapporto tra Napoli e la Cina non solo speciale, ma anche solido. Se consideriamo il presente, sono tanti i progetti che coinvolgono Napoli. Sul territorio campano opera la già nominata associazione “Ciao Cina”, per la quale ho lavorato io stessa, che si occupa dell’integrazione tra la comunità napoletana e quella cinese.

Anche l’Istituto “Confucio” è presente sul territorio: un polo culturale di riferimento per noi napoletani per approfondire le conoscenze linguistiche e, naturalmente, l’Orientale, che, oltre la storica tradizione sinologica e la solidità accademica, vanta una corposa biblioteca, ricca di testi antichi e molto rari. La comunità cinese in Campania, che si attesta a quasi quattordicimila individui, è una comunità integrata, giunta alla quarta generazione. I bambini, oltre a frequentare le suole cinesi, frequentano anche quelle italiane e sono ormai perfettamente bilingui. In fine, l’Accademia di Belle Arti di Napoli aderisce da molto tempo ai progetti “Turandot” e “Marco Polo”, che hanno proprio lo scopo di gettare un ponte tra le due culture, divenendo un polo di attrazione per numerosissimi studenti cinesi.”

Dopo l’esperienza della pandemia, da sinologa, credi che in Italia la percezione del mondo Cina sia in qualche modo cambiata?

“Lavorando con la Cina da sette anni, la mia visione di questo paese, ormai, è quella “dall’interno”. Infatti, quando mi ritrovo a fare training di mediazione culturale, prima di iniziare chiedo sempre “Qual è la vostra visione della Cina?”, poiché mi rendo conto che ho necessità di avere per un momento un distacco, di uscire un po’ dalle mie conoscenze. Penso che la maggior parte delle persone conoscano ben poco della Cina e questa è una nota un po’ dolente, poiché abbiamo dei rapporti piuttosto solidi con questo paese, se pensi soltanto all’iniziativa della Nuova Via della Seta, nella quale l’Italia è uno dei paesi europei più coinvolti.

Per questo esiste il ruolo del sinologo. Questa è la nostra missione: cercare di far conoscere la Cina. Questo è lo scopo di Siamo fiori dello stesso giardino, raccontare uno spaccato, in questo caso quello della pandemia, tessere un legame e mostrare come un popolo apparentemente diverso da noi ha vissuto il nostro stesso dramma. Questa iniziativa, questo libro hanno, dunque, il fine di far conoscere questo paese anche a chi non è un sinologo, ma ne è semplicemente incuriosito. Con Siamo fiori dello stesso giardino spero di aver assolto ai doveri culturali della sinologia e di aver portato un pochino di luce in questo periodo scuro. Il cambiamento è la sola costante della vita: prima si fa del cambiamento un’opportunità, prima si spezzeranno le catene.”


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