Idries Shah, La strada del Sufi. Le idee, le azioni e i documenti. Questo non è un libro da leggere, è un attrezzo da maneggiare.
Idries Shah, La strada del Sufi. le idee, le azioni e i documenti. Quel blu istituzionale della copertina di Astrolabio Ubaldini Editore non promette calore. Ha la calma innaturale di una sala d’attesa, la precisione di un documento d’archivio, un’eleganza algida che prepara non a un’esperienza estatica, ma a una perizia. E il sottotitolo è una dichiarazione d’intenti che gela sul nascere ogni sentimentalismo, le idee, le azioni e i documenti. Non un viaggio dell’anima, non un sentiero del cuore. Un fascicolo. Si ha la sensazione di non aprire un libro per curiosità, ma di essere stati convocati per un esame del quale non si conosce la materia.
Idries Shah non fa il mistico, non fa il cantastorie, non fa il guru. Adotta la postura dell’archivista, del perito, del curatore che ha ricevuto l’incarico di assemblare un dossier su un fenomeno inafferrabile. Ha raccolto reperti, prove, testimonianze e li ha messi in fila con una logica che non è narrativa, ma funzionale, quasi ingegneristica. All’inizio ci si sente spaesati, come in una mostra d’arte contemporanea volutamente priva di didascalie. Si passa da una biografia essenziale di un maestro dell’XI secolo a una storiella apparentemente banale, da una poesia abbagliante di Rumi a un tema per la contemplazione che sembra il quesito di un test psicologico. Non c’è una mano tesa, non c’è una guida turistica per l’infinito, non c’è neppure la promessa di una meta. C’è solo il materiale, esposto con una neutralità quasi clinica. Shah ti lascia solo in un magazzino pieno di attrezzi che non sai come usare e ti osserva da lontano, in silenzio, mentre provi goffamente a montarli.

Ed è proprio in questo abbandono, in questa assenza di istruzioni, che il dispositivo del libro si innesca. Mentre la tua mente, addestrata a ordinare, a classificare, a capire, cerca disperatamente di dare un senso, di trovare un filo conduttore, scopre con un disagio crescente che l’oggetto dell’analisi non sono i testi, ma sei tu. Le storie del Mulla Nasrudin prima ti fanno sorridere per l’arguzia paradossale, poi ti lasciano un’inquietudine profonda, un retrogusto amaro, perché in quell’assurda, spietata lucidità del folle rivedi il meccanismo esatto del tuo pensiero, le fondamenta ridicole su cui hai costruito le tue certezze più solide.
Questo libro non si legge, si usa. O meglio, è lui che usa te. Funziona come quegli apparecchi dell’oculista, dove ti cambiano le lenti davanti agli occhi chiedendo, “Meglio così? O così?”. Ogni pagina, ogni aneddoto, ogni poesia è una lente diversa che Shah ti piazza davanti, e alla fine non hai imparato qualcosa di nuovo sul sufismo. Semplicemente, vedi tutto il resto, te stesso, le tue ambizioni, le tue ricerche spirituali, le tue paure, con una messa a fuoco diversa. Più nitida, e per questo quasi dolorosa. È un’operazione di decondizionamento condotta con strumenti letterari. Non aggiunge, ma toglie. Sottrae strati di sovrastrutture, smantella le impalcature dell’ego che si traveste da cercatore spirituale.
Quando lo chiudi, quel blu sulla copertina sembra aver cambiato tonalità, sembra meno innocente, più carico di potenziale. Non hai trovato risposte. Non hai raggiunto nessuna vetta mistica. Non provi pace, ma una strana, vibrante quiete. È la quiete che segue una demolizione controllata. Ti ha lasciato uno spazio vuoto e una lucidità implacabile, come una luce al neon che sfarfalla su una stanza disadorna.
Lo rimetti sullo scaffale, o lo lasci sul tavolo. Ma non è più un libro. È un oggetto carico. Un detonatore silenzioso. Lo guardi e capisci che il suo lavoro non è finito quando hai letto l’ultima pagina. È appena cominciato. Resta lì, un monolite blu che ti interroga in silenzio, e tu sai, con una certezza che non è più intellettuale ma fisica, che da quel momento in poi non potrai più camminare nello stesso modo, pensare nello stesso modo, mentire a te stesso nello stesso modo. Non ti ha dato una strada. Ha fatto saltare in aria la tua.