Il pensiero dualistico come attrattore strano. Analisi e riflessioni. Teoria del caos e mente umana.
La Teoria del Caos mi ha sempre profondamente affascinato. Ricordo ancora la prima volta che ne lessi, quasi per caso, e fu come se una finestra si fosse spalancata su un panorama mentale completamente nuovo. Questa teoria ha il potere straordinario di ribaltare la nostra visione convenzionale del mondo, quella a cui siamo abituati fin da piccoli, fatta di cause ed effetti lineari e prevedibili. Ci insegna, invece, che dietro un disordine apparente, quello che a prima vista potrebbe sembrare un guazzabuglio inestricabile di eventi, si cela in realtà un sottile, quasi impalpabile, schema di connessioni. Un ordine più profondo, più misterioso e infinitamente più complesso di quanto avremmo mai potuto immaginare. È come se l’universo intero giocasse a nascondino con noi, celando le sue intricate trame sotto il velo di una casualità che, a ben guardare, non è mai veramente tale.
Questa teoria, infatti, non ci parla del caos come lo intendiamo comunemente, ovvero come pura confusione, come assenza totale di regole o direzione. Al contrario, ci svela come sistemi che sembrano comportarsi in maniera del tutto aleatoria, imprevedibile, seguano in verità delle regole precise, matematicamente definibili, anche se queste rimangono spesso invisibili a un primo, superficiale sguardo. Causa ed effetto non sono più legati da una semplice catena, ma si intrecciano in modi sorprendenti, spesso elusivi, generando esiti che sfidano le nostre capacità predittive, pur essendo governati da una logica nascosta, una sorta di intelligenza immanente nel sistema stesso.
Prendiamo, ad esempio, il movimento di un pendolo. Osservandolo, si nota che, nonostante le possibili perturbazioni iniziali, come una spinta più o meno forte, o una leggera corrente d’aria, alla fine la sua oscillazione tende a stabilizzarsi, ritornando inesorabilmente verso lo stesso punto di equilibrio. Questo è ciò che i teorici del caos chiamano un attrattore semplice, un punto fisso verso cui il sistema converge. Oppure, pensiamo all’acqua che scorre tumultuosa in un fiume, dove osservandola attentamente, si possono notare vortici che si formano, si disfano e si riformano, seguendo schemi che si ripetono ciclicamente. Ecco un esempio di attrattore ciclico. Ma la natura, nella sua infinita creatività, è ben più complessa e sofisticata di così. Nel 1963, il meteorologo Edward Lorenz, mentre lavorava a modelli matematici per le previsioni del tempo, fece una scoperta che avrebbe cambiato per sempre il nostro modo di comprendere questi sistemi. Scoprì l’esistenza degli attrattori “strani”, configurazioni che non sono né punti fissi né cicli ripetitivi, ma forme frattali infinite, geometrie complesse che si ripetono, simili a sé stesse, a scale differenti. Era la dimostrazione che il caos stesso, lungi dall’essere mera anomalia, è in grado di generare un suo ordine intrinseco, una sua estetica nascosta.
La teoria del caos ci ha mostrato, da allora, che questi attrattori strani sono onnipresenti, nascosti ma operativi ovunque intorno a noi, nei fenomeni meteorologici, nei fluidi in movimento, come le correnti oceaniche o le volute di fumo, e persino nei sistemi biologici, dal battito cardiaco alle dinamiche delle popolazioni. È incredibilmente affascinante, e a volte persino un po’ inquietante, constatare come anche la più infinitesimale variazione nelle condizioni iniziali di un sistema complesso possa condurre a risultati finali completamente divergenti. È il famoso “effetto farfalla”, l’idea che il battito d’ali di una farfalla in Brasile possa, attraverso una catena di eventi amplificati, scatenare un tornado in Texas. Eppure, in tutto questo caos apparente, in questa sensibilità estrema alle condizioni di partenza, emergono comunque dei pattern riconoscibili, delle forme ricorrenti. È come se l’universo, nella sua danza incessante tra ordine e disordine, continuasse a disegnare le stesse figure, sempre diverse nei dettagli ma stranamente, profondamente familiari nella loro struttura generale.
Se ora la mia mente va a circa diecimila anni fa, immagino i nostri antenati, nella Mezzaluna Fertile, che per la prima volta posarono uno sguardo diverso sulla terra che li circondava. Qualcosa, in quel periodo cruciale della nostra storia, cambiò per sempre. La rivoluzione agricola non fu soltanto un nuovo, più efficiente modo di procurarsi il cibo, fu molto di più. Fu l’alba di un nuovo modo di pensare, di organizzare la società, e soprattutto, di dividere. Di tracciare confini.
Mentre osservo il solco nel terreno del mio piccolo orto, un gesto semplice che ripeto quasi meccanicamente ogni primavera, la mia mente vola a quel primo, fatidico momento. Quel nostro antenato che, con un bastone o una pietra appuntita, tracciò una linea netta sul suolo. Quel gesto, apparentemente così banale, il separare un “qui” da un “là”, un “mio” da un “non mio”, fu forse il primo, inconsapevole passo verso la più grande rivoluzione del pensiero umano, la nascita del dualismo.
E qui vedo un parallelismo potente: proprio come uno strano attrattore nella teoria del caos, il pensiero dualistico ha esercitato, e continua ad esercitare, una forza irresistibile sulla cognizione umana. Ha creato schemi mentali ricorrenti, che tendono a convergere verso strutture binarie riconoscibili, nonostante l’apparente casualità e fluidità dell’esperienza. Quel primo solco tracciato nella terra fertile del Neolitico, io credo, ha innescato un effetto farfalla cognitivo le cui ripercussioni plasmano ancora oggi, in modi spesso sotterranei, il nostro modo di interpretare la realtà.
Immagino quel primo agricoltore, con il suo strumento rudimentale, mentre incide un confine nel terreno. Non poteva certo sapere, né tantomeno prevedere, che quel semplice gesto avrebbe dato il via a una cascata di separazioni concettuali. Dal “mio” campo al “tuo” campo, si passò rapidamente a distinguere tra “dentro” e “fuori”, tra “noi”, la comunità stanziale, e “loro”, i nomadi, gli estranei. E da lì, la spirale delle dicotomie si è allargata: amico e nemico, buono e cattivo, sacro e profano. Come le iterazioni successive di un sistema caotico, ogni nuova divisione ha generato ulteriori biforcazioni, creando una geometria del pensiero sempre più complessa, che si autoalimenta e si ripete, con variazioni, a scale sempre diverse.
Il dualismo è diventato il nostro strano attrattore cognitivo preferito, un pattern che emerge costantemente dal caos dell’esperienza umana. Così come l’attrattore di Lorenz, nel suo evolvere, genera le caratteristiche “ali di farfalla”, il pensiero dualistico crea incessantemente strutture binarie che si ripetono in ogni ambito dell’esperienza umana, come vediamo nella religione, con le idee di sacro e profano o di paradiso e inferno, nella filosofia, con concetti come mente e corpo oppure spirito e materia, nella politica, con le divisioni tra destra e sinistra o tra conservatore e progressista, e persino nella tecnologia, con il digitale opposto all’analogico e la base dell’informatica sullo 0 e l’1.
Ma c’è una profonda, quasi beffarda ironia in tutto questo. Nel tentativo, forse istintivo, di ordinare il caos della realtà attraverso categorizzazioni nette e distinte, abbiamo finito per creare un sistema ancora più caotico a un livello superiore. Ogni dualismo, infatti, genera nuove contraddizioni, nuove tensioni. Ogni categoria che tracciamo produce inevitabilmente i suoi casi limite, le sue zone grigie, le sue eccezioni che mettono in crisi la definizione stessa. Ogni confine che disegniamo, se osservato da vicino, rivela la sua intrinseca arbitrarietà, la sua natura di costrutto umano piuttosto che di caratteristica intrinseca della realtà. Il nostro tentativo di dominare il caos attraverso il pensiero binario ha, in un certo senso, generato un meta-caos ancora più complesso, una ragnatela di opposizioni che spesso ci imprigiona.
Eppure, proprio come uno strano attrattore rappresenta un ordine nascosto all’interno del caos, anche il pensiero dualistico possiede una sua “attitudine frattale”, quella proprietà affascinante per cui lo stesso schema fondamentale si ripete a scale differenti, come in una foglia di felce, dove ogni piccola parte riproduce la forma dell’intera foglia, o come nelle ramificazioni di un albero. Questa struttura dualistica del pensiero, non posso negarlo, ci ha permesso di sviluppare il linguaggio, che si basa su distinzioni e categorizzazioni. Ha reso possibile la matematica e la logica, fondate su assiomi e opposizioni. Ha strutturato le nostre società, le nostre leggi e le nostre culture. È stato, contemporaneamente, limite e possibilità, gabbia e chiave. Ci ha fornito gli strumenti per comprendere e manipolare il mondo, ma forse ci ha anche precluso la vista su altre, più olistiche, modalità di comprensione.
Oggi, mentre osserviamo il mondo attraverso le lenti più sofisticate della complessità e della teoria del caos, cominciamo forse a intravedere la possibilità di guardare oltre il dualismo, o almeno oltre la sua tirannia. Comprendiamo, o almeno intuiamo, che la realtà non è fatta solo di opposizioni nette, di bianco e nero, ma di infinite sfumature di grigio. Non di confini invalicabili, ma di gradienti, di transizioni fluide. Non di categorie fisse e immutabili, ma di sistemi dinamici in continua, perenne evoluzione.

E quindi? Qual è la via d’uscita, se di uscita si può parlare? Credo che sia giunto il momento di provare a trascendere questo potente strano attrattore che ha dominato il pensiero umano per millenni. Come? Forse, un primo passo potrebbe essere quello di iniziare a porci come osservatori esterni della nostra stessa mente, analizzare il suo funzionamento incessante, la sua continua, quasi automatica, propensione al pensiero dualistico. Non si tratta di negarlo, certo, sarebbe impossibile, oltre che controproducente, perché fa parte della nostra struttura cognitiva. Si tratta piuttosto di riconoscerlo per quello che è: uno strumento tra i tanti, un modo di pensare tra i molti possibili, potente e utile in certi contesti, limitante e fuorviante in altri. Proprio come nella teoria del caos, dove ordine e disordine non sono visti come opposti inconciliabili, ma come aspetti complementari, interconnessi, della stessa, unica realtà.
Quel primo solco, tracciato diecimila anni fa nella terra della Mezzaluna Fertile, continua a riverberare attraverso il tempo, un minuscolo battito d’ali che ha generato intere tempeste di pensiero, di cultura, di storia. Ma ora, armati di una nuova consapevolezza, possiamo forse iniziare a percepire l’unità sottostante alla dualità, il continuo che si cela dietro al discreto, il movimento infinito e la danza incessante tra ordine e caos che caratterizza tanto il nostro pensiero quanto l’universo stesso.
È un pensiero, questo, che mi riempie di meraviglia e, devo ammetterlo, di una profonda speranza. Come quel primo agricoltore che tracciò un confine nella terra, aprendo una nuova era, anche noi, oggi, possiamo iniziare a tracciare nuovi solchi nel terreno fertile della cognizione umana. Ma questa volta, il nostro intento può essere diverso: non più per dividere, ma per unire, non per separare, ma per connettere, non per semplificare riducendo, ma per abbracciare la complessità in tutta la sua magnifica, misteriosa e a volte spiazzante bellezza. E forse, in questo nuovo solco, potremmo scoprire paesaggi interiori ed esteriori di una ricchezza che oggi possiamo solo iniziare a intuire.