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Il romanzo su Giacomo Leopardi che mi ha stupito

L'alienazione e la resilienza di un genio.

Romanzo su Giacomo Leopardi che ha mi ha stupito. L’alienazione e la resilienza di un genio. “L’ospite della vita” di Vladimiro Bottone.

Romanzo su Giacomo Leopardi. Ho appena finito di leggere “L’ospite della vita” di Vladimiro Bottone, pubblicato da Avagliano Editore nel 1999, e devo confessare che mi ha profondamente colpito. Parallelamente, ho già letto “Mozart in viaggio per Napoli” (2003) dello stesso autore e editore, e probabilmente ne scriverò in seguito.

Vladimiro Bottone “L’ospite della vita” – Avagliano Editore

Giacomo Leopardi, uno dei più grandi poeti e filosofi italiani del XIX secolo, trascorse gli ultimi anni della sua vita a Napoli, dal 1833 fino alla sua morte nel 1837. Durante questo periodo, sebbene segnato dalla malattia e dalle difficoltà finanziarie, il grande poeta di Recanati trovò in questa città contraddittoria un luogo che, nonostante l’alienazione, stimolò alcune delle sue ultime importanti riflessioni poetiche e filosofiche.

La scrittura di Bottone è straordinaria: densa, stratificata, a volte così ricca che mi sono ritrovato a rileggere certe pagine più volte, come si potrebbe fare con un manuale tecnico. È uno scrittore che trovo eccezionale e di cui ho intenzione di leggere molto di più in futuro.

Sono stato particolarmente colpito dal capitolo 9, dove l’autore ci offre una sorta di anti-cartolina di Napoli che, paradossalmente, diventa anche una celebrazione mitologica e arcaica di essa, quasi onirica. L’atmosfera rarefatta mi ha ricordato scene dei film di Paolo Sorrentino, un regista che adoro e di cui ho visto l’intera opera, inclusa la recente “Parthenope.”

Napoli tra bellezza e decadenza

In questo capitolo, il lettore è immerso nel tumultuoso contesto del 1836, quando Napoli era minacciata da un’epidemia di colera, parte di una pandemia globale. Giacomo Leopardi, il protagonista, si muove in questo scenario con un senso di presagio e disagio, consapevole della fragilità della vita e della precarietà dell’esistenza.

Bottone ci fa camminare accanto a Leopardi lungo la spiaggia di Chiaia, avvolti in un’atmosfera opprimente. La descrizione del paesaggio è impressionantemente precisa: “Cos’era Chiaia? Una dolce marina o un pelago ammorbato da due o tre delle 54 bocche di cloaca”. Posso quasi sentire fisicamente il peso che grava sul poeta, ogni suo passo sulla sabbia fangosa diventa un atto di resistenza contro un mondo ostile.

L’aria è carica di tensione, un presagio di catastrofe imminente. Leopardi alza lo sguardo verso l’orizzonte, cercando sollievo nella striscia grigia di mare, ma trova solo un riflesso della sua inquietudine. Bottone scrive che “li fece navigare per tutta la striscia grigio peltro del mare”, una metafora che descrive come Leopardi muova il suo sguardo, come piccole imbarcazioni, lungo la linea dell’orizzonte marino. Il “grigio peltro” indica il colore opaco, metallico e spento del mare, simile al peltro (una lega metallica grigiastra). Questa immagine comunica efficacemente lo stato d’animo del poeta: invece di trovare conforto nell’orizzonte, Leopardi vede solo una distesa grigia e cupa che riflette la sua inquietudine interiore e il senso di oppressione che pervade la città minacciata dal colera.

L’alienazione di Leopardi emerge straziante quando chiede semplicemente dell’acqua e riceve la brusca risposta: “Nu bicchiere? E che simmo, milionari, ca tenimmo ‘e bicchiere?”. Mi sono sentito trasportato in quella scena, percependo la sua estraneità, il suo non appartenere.

I bambini completamente nudi che lo circondano e “lo squadronavano senza apparente palpito d’inquietudine” creano un contrasto potente: la loro innocenza contro la complessità dell’età adulta, la loro libertà contro la prigionia interiore del poeta. Questi bambini rappresentano un collegamento con un tempo in cui la vita era vissuta nel momento, senza sovrastrutture e preoccupazioni che caratterizzano l’esperienza adulta. In queste pagine, ho sentito tutta la solitudine di un uomo che osserva la vita senza potervi partecipare veramente.

Sabella: voce ancestrale di Napoli

E poi c’è Sabella, una figura quasi mitologica! La sua descrizione mi ha affascinato: quella voce potente, quelle “spalle erette” e lo “sterno che ingabbia ancora saldamente una cassa armonica di limpida risonanza”. Quando canta “Vurria addeventare pesce d’oro dint’a lu mare me iessa a menare…”, sembra evocare un desiderio ancestrale di trasformazione e fuga che risuona nell’anima di Leopardi.

Sabella è la voce di una Napoli antica, primordiale, che sopravvive nonostante tutto. Il suo personaggio mi ha fatto pensare alle potenti figure femminili della mitologia mediterranea, sacerdotesse di un culto antico quanto la città stessa. In lei, ho sentito la resistenza e la resilienza di una cultura che sa sopravvivere anche alle peggiori calamità. Rappresenta un collegamento con un tempo passato, un’epoca in cui la vita era vissuta con una semplicità e una connessione che ora sembrano perdute.

Come lo girerei: tra Sorrentino e Fargeat

Se dovessi trasformare questo capitolo in una sequenza cinematografica, combinerei gli stili di Sorrentino e Coralie Fargeat in modo inquietante e affascinante. Ho visto “The Substance” di Coralie Fargeat e lo trovo straordinario—un manifesto cinematografico inclassificabile per genere. Ho anche apprezzato il suo film del 2017 “Revenge.”

Inizierei con lenti carrelli in avanti, tipici di Sorrentino, seguendo Leopardi mentre cammina lungo la spiaggia. Userei inquadrature simmetriche grandangolari per catturare la vastità del paesaggio e, in contrasto, la piccola figura del poeta al suo interno. La fotografia presenterebbe toni desaturati, con un marcato contrasto tra aree di luce e ombra, mentre la colonna sonora alternerebbe composizioni classiche con silenzi prolungati densi di tensione. Come sfondo musicale, sceglierei “Megaloner” della band di musica indie e alternativa Circuit Des Yeux, e tracce di Danny Elfman composte per “Edward mani di forbice” di Tim Burton, in particolare “The Ice Dance”, per accentuare quella dimensione di sospensione surreale, onirica, quell’incontro tra un personaggio “alieno” come Giacomo Leopardi e una città altrettanto “aliena” come Napoli.

Poi, improvvisamente, inseriti in questo contesto contemplativo, arriverebbero elementi inquietanti alla Fargeat: un primo piano della bocca di Sabella, che rivela denti marci e gengive ritirate mentre canta, trasformando la bellezza della sua voce in un contrasto inquietante con la sua fisicità deteriorata. I bambini nudi sarebbero filmati con dettagli disturbanti: corpi sporchi, piccole ferite, occhi troppo grandi o troppo piccoli, che ridono e giocano con una vitalità paradossalmente magnifica, piccoli efebi vivaci che sono contemporaneamente prodigi e abomini.

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Le bocche di cloaca diventerebbero quasi protagoniste, filmate con obiettivi macro che esaltano la loro umidità viscida, le acque putride che fluiscono nel mare. Dettagli di insetti che si muovono sulla sabbia e alghe in decomposizione, tutti catturati con una nitidezza quasi dolorosa.

Alternerei questi momenti di crudo realismo con sequenze oniriche: Leopardi che vede il suo riflesso nell’acqua trasformarsi in un volto antico, forse quello di Virgilio; un libro che si apre da cui emergono pesci volanti che attraversano il cielo. Un simbolismo sorrentiniano alienante, che si fonde con l’estetica corporea di Fargeat.

La scena finale sarebbe un lungo carrello che si alza lentamente dalla spiaggia verso il cielo, mostrando l’intera città di Napoli in un grandangolo simmetrico dall’alto, mentre la voce di Sabella continua a risuonare, sempre più distorta, fino a diventare un suono quasi elettronico, disumano. Un’immagine che racchiude tutta la bellezza e l’orrore di una città sospesa tra la vita e la morte, proprio come il suo illustre ospite.

E… quindi?

Potrebbe essere questa l’interpretazione più profonda del romanzo di Bottone? Una Napoli che, come Leopardi, vive sospesa tra desiderio di bellezza e consapevolezza della fine, tra aspirazione all’eternità e confronto quotidiano con la decomposizione. Una città che, come il suo illustre “ospite”, non può essere compresa attraverso cartoline o immagini stereotipate, ma solo attraverso il paradosso di una bellezza che fiorisce proprio sui bordi dell’abisso.

Mi chiedo se Bottone abbia voluto mostrarci, attraverso gli occhi di Leopardi, non tanto una Napoli storicamente accurata, quanto piuttosto una metafora della condizione umana stessa: vivere al confine tra il sublime e l’orrore, tra la poesia e la fogna. E forse, in questo senso, non siamo tutti in qualche modo “ospiti della vita”, sospesi tra il desiderio di eternità e la consapevolezza della nostra finitezza?

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