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Leopardi a Napoli: la teoria della distrazione, la Ginestra e l’India

La via della distrazione consapevole ed il pensiero indiano.

Leopardi a Napoli: la teoria della distrazione, la Ginestra e l’India. La via della distrazione consapevole ed il pensiero indiano.

Leopardi a Napoli. Il 2 ottobre 1833, Giacomo Leopardi arriva a Napoli con l’amico Antonio Ranieri. La città è un crocevia di fermento culturale e rigida censura borbonica, che nel 1835 frenerà la pubblicazione delle sue opere. Leopardi, inizialmente attratto dal clima e dall’ambiente, presto si scontra con l’ostilità dell’ambiente intellettuale verso il suo materialismo. Osserva con disgusto i rituali di una borghesia dedita alle “cerimonie gastronomiche”. Proprio questa insofferenza verso la superficialità della società partenopea si tradurrà nei versi sarcastici de “I nuovi credenti”, dove il poeta si scaglia contro quelle “anime elette / a goder delle cose: in voi natura / le intenzioni sue vede perfette”, ironizzando sulla città che “s’arma Napoli a gara alla difesa / de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni / anteposto il morir, troppo le pesa”. In questi versi emerge tutta la distanza tra il pensiero leopardiano e l’edonismo superficiale di una società che antepone i piaceri della tavola alla profondità del pensiero.

Ammirazione e apertura

Il filosofo Benedetto Croce riconobbe in questa polemica due elementi chiave: la dialettica tra pensiero astratto e concretezza sensoriale: secondo il filosofo napoletano, Leopardi aveva colto il conflitto tra il suo  idealismo filosofico e l’adesione alla realtà concreta tipica del popolo partenopeo. La violenza del sarcasmo nascondeva però un’ammirazione inconscia per la vitalità napoletana, che costringeva il poeta a confrontarsi con “nuovi registri di comprensione”.

Il valore simbolico del realismo napoletano: Croce lesse nei “maccheroni” non solo una metafora del materialismo, ma un emblema del rapporto tra etica ed estetica. La felicità napoletana, benché frutto d’ignoranza, rappresentava per Leopardi una sfida alla sua stessa filosofia del pessimismo, spingendolo verso una forma più matura di realismo poetico. Nella sua analisi delle opere leopardiane, Croce sottolineò come il soggiorno napoletano avesse influito sulla svolta antropologica del poeta: “Il contatto con Napoli […] sollecitò Leopardi ad aprire la sua sensibilità a una percezione nuova della realtà”, attraverso l’incontro con paesaggi, sapori e tradizioni che ne arricchirono il linguaggio poetico.

Distrazione

La sua teoria della distrazione, già presente nello “Zibaldone” dal 1819, trova qui applicazione concreta. La distrazione come “discontinuità della coscienza” permette di eludere una verità razionale che “immobilizza l’individuo”. Il pensiero di Leopardi sulla distrazione presenta interessanti analogie con alcuni concetti del Vedānta, l’antica filosofia indiana. Come nel Vedānta il concetto di māyā (illusione) vela la vera realtà, così per Leopardi la distrazione può manifestarsi come una “trappola” che porta all’inazione, oppure trasformarsi in una via di consapevolezza. Questo parallelismo, pur non derivando da un’influenza diretta, illumina la dimensione universale della riflessione leopardiana.

Entrambe le visioni riconoscono la sofferenza come condizione intrinseca dell’esistenza. Tuttavia, le risposte a questa condizione divergono significativamente: mentre il Vedānta propone una trascendenza attraverso la conoscenza spirituale, Leopardi elabora una strategia di “sopravvivenza esistenziale” attraverso la distrazione consapevole. Quest’ultima non è mera fuga, ma un sofisticato meccanismo di protezione psicologica che permette di sostenere il peso della verità senza esserne schiacciati.

La differenza cruciale risiede nell’approccio finale: per il Vedānta, l’accettazione della realtà è un mezzo per la trasformazione spirituale; per Leopardi, è il punto d’arrivo di una consapevolezza razionale che trova nella dignità la sua massima espressione. La distrazione diventa così un “analgesico metafisico”, non per negare il dolore ma per renderlo abitabile, trasformandolo da paralisi totale in condizione di possibile azione e pensiero. È una via mediana tra la negazione e la resa, che trova nella consapevolezza dei propri limiti la sua più alta espressione di dignità umana.

La Ginestra

Nel 1836, mentre il colera devasta Napoli, Leopardi si rifugia sul Vesuvio. “Al misero / cui di materna mano / l’ultimo sorso è dato” (La Ginestra): questi versi evocano la fragilità umana di fronte alla morte. La distrazione, paradossalmente, non elimina il dolore, ma lo rende tollerabile, come un analgesico metafisico. “Senza illusioni non c’è vita né azione”, afferma Leopardi.

I versi della “Ginestra” mostrano una natura che, pur tra distruzione e sofferenza, continua a fiorire:

“E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.”

In questi versi, Leopardi si rivolge alla ginestra, fiore simbolo di resilienza che cresce sulle pendici del Vesuvio. Il poeta riconosce la fragilità della ginestra, destinata a soccombere alla potenza del vulcano, ma ne ammira la dignità e la capacità di fiorire anche in un ambiente ostile. La ginestra, pur consapevole della propria mortalità, non si umilia supplicando il “futuro oppressor”, né si erge con “forsennato orgoglio” verso il cielo. Leopardi sottolinea la saggezza della ginestra, che accetta la propria condizione mortale senza illudersi di essere immortale, a differenza dell’uomo.

“Per il saggio discriminante, tutto è sofferenza” – così Śaṅkara, massimo esponente dell’Advaita Vedānta (Brahma-sūtra-bhāṣya, 1.1.2). Leopardi vede nella ginestra l’incarnazione naturale di questa verità: l’accettazione dell’impermanenza, senza illusioni né false consolazioni. Ma mentre Śaṅkara vede in questa consapevolezza la spinta verso il permanente (il Brahman), Leopardi trova nella dignità dell’accettazione, nel fiorire nonostante tutto, la più alta saggezza possibile. Due vie diverse che partono dalla stessa lucida visione del reale.

Silenzioso

Nel confronto tra Leopardi e la filosofia indiana emerge un dialogo silenzioso sulla natura della sofferenza e della saggezza. Se il Vesuvio rappresenta l’ineluttabile destino di distruzione, la ginestra e il pensiero vedantico offrono due vie diverse di fronte alla stessa verità: la trascendenza attraverso il Brahman o la dignità dell’accettazione. Nella Napoli del colera, tra i profumi della ginestra e l’ombra del vulcano, Leopardi trova la sua risposta: non la liberazione dal dolore, ma la nobiltà di fiorire consapevolmente di fronte ad esso. Due sentieri che partono dalla stessa lucida visione del reale, per giungere a destinazioni opposte ma ugualmente profonde.

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