Pensiamo di sapere ma siamo preda dell’attaccamento

"I mangiatori di patate" di Van Gogh: i contadini ritratti sono completamente assorbiti dal loro pasto, in un attaccamento viscerale ai bisogni primari.

Pensiamo di sapere ma siamo preda dall’attaccamento. Ci affidiamo a mere intuizioni che giudichiamo “più naturali”, “più esotiche”, “più mistiche”, figlie del “mondo che sta altrove”.

Pensiamo di sapere. Scrivo queste righe con il cuore aperto e la mente limpida. Di recente ho notato che anche su piattaforme web come Medium.com,  in cui vengono divulgati contenuti tutt’altro che superficiali, vinca spesso la retorica secondo cui siamo destinati a soffrire, non trovando luce nel caos del mondo che ci circonda.Trovo molta confusione concettuale in questi articoli, ma è tipica del 99,9% degli abitanti del nostro mondo. Tendiamo a presumere di sapere, ma in realtà non conosciamo nulla. Tendiamo a concepire forzatamente “una morale ignota ma sadica e condivisa” che riteniamo innanzitutto creata apposta per noi, e che deriviamo dalle nostre esperienze profondamente personali. Ci ostiniamo a pensare che debba essere così “per forza”.

È vero, il dolore è parte integrante dell’esistenza umana. Spesso ci identifichiamo nelle storie altrui di sofferenza, è naturale. Tuttavia, credo fermamente che nel seme stesso del dolore sia contenuta anche la gioia.

Leggiamo ed ascoltiamo di più invece di affidarci a mere intuizioni che giudichiamo “più naturali” , “più esotiche”, “più mistiche”, figlie del “mondo che sta altrove” che ci sforziamo di capire. Le filosofie antiche ci insegnano che gran parte della nostra infelicità nasce dall’attaccamento. Dall’ancorarsi ai nostri scopi, alle azioni compiute per raggiungerli, ai risultati di tali azioni. Dall’identificarci completamente con il nostro io, trascurando la nostra vera Essenza. L’io con i suoi sensi ed egoismi può solo offrirci un’illusione della realtà. La nostra vera Natura è invece immutabile, velata dall’ignoranza che ci impedisce di vedere l’unità sottostante l’apparente molteplicità fenomenica.

Anche la preghiera, la meditazione andrebbero praticate senza attaccamento allo scopo, altrimenti rischiamo di rimanere ancorati alle dinamiche egoiche che vogliamo trascendere.

Le storie di dolore hanno senz’altro un forte potere attrattivo. Generano immedesimazione ed empatia in chi le ascolta o legge. Servono a farci sentire meno soli nella nostra vulnerabilità. Eppure, non dovremmo identificarci totalmente con l’infelicità altrui, altrimenti rischiamo di perderci nel baratro dell’oscurità. Dovremmo invece imparare dalle esperienze negative, farne tesoro, e poi lasciarle andare. Guardare oltre. Pensiamo di sapere già tutto, ma non è cosi.

Ogni crisi personale può diventare occasione di risveglio interiore e di profonda trasformazione. Basta cambiare prospettiva. Vedere il vaso rotto non più come una perdita irreparabile, ma come opportunità per creare qualcosa di nuovo. Magari un mosaico, o un’installazione artistica. Qualcosa di bello. Anche un trauma, un lutto, una malattia, possono paradossalmente avvicinarci alla consapevolezza della nostra vera Natura. Smascherare le illusioni dell’ego. Svelare la Luce che si nasconde nell’ombra della sofferenza, la Gioia che alberga nel seme stesso del dolore.

Ogni crisi può condurci più in profondità dentro noi stessi, là dove non c’è sofferenza né gioia, ma solo Pace. L’occhio del ciclone, l’asse immobile attorno cui ruota il turbinio vorticoso dell’esistenza. È lì, in quel luogo di quiete imperturbabile, che forse risiede il senso ultimo di questa avventura che chiamiamo vita. Lì che possiamo finalmente comprendere, con la saggezza del cuore, che in fondo siamo già felicità. Pensiamo di sapere già tutto, ma non è cosi.

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