Sebastiano Vassalli o il luccio che dorme al Monte Rosa

Sebastiano Vassalli: il mestiere dello scrittore alla ricerca di quel “nulla pieno di storie”.

Sebastiano Vassalli se n’è andato cinque anni fa, il giorno di Sant’Anna del 2015. Poco tempo dopo il fatto, diretto in Svizzera per una vacanza, mi capitò di attraversare in macchina le sue “terre d’acque”, il novarese, quella pianura sospesa tra i monti corallo e le lamine turchesi dove al tempo di Mario quieti i lucci attendevano la preda e la morte, almeno come Vassalli raccontava in “Terre selvagge”. Guardando dal finestrino il panorama fuggir via, osservando quelle risaie sterminate e verdissime anelanti all’imperturbabile sacralità delle Alpi, sapendo che lui, forse, non le avrebbe mai più guardate, capii finalmente perché nella “Chimera” scrisse: “Dalle finestre di questa casa si vede il nulla”.

La luce morale.

Lui per me è stato il nume, la luce morale d’anni trascorsi a raccontare storie. La sua lontana, felina e scontrosa presenza su questa terra, in quella cascina isolata di Marangana di Biandrate nell’acquosa bassa dominata dagli aironi, rassicurava e rendeva lecita la mia ricerca dell’oro. Avevo venticinque anni quando ebbi sottratto il maestro, l’auspicio di scorgerlo d’improvviso reso impossibile. Come Montale, Vassalli era genovese. Quella città di mare, però, l’abbandonò presto per le montagne, il Piemonte protagonista di molti romanzi. Dopo la laurea a Milano, discutendo una tesi sulla psicanalisi e l’arte contemporanea, negli anni ’60 partecipò alle sperimentazioni delle avanguardie e al Gruppo63, dedicandosi solo in seguito al romanzo storico, a cominciare, nell’84, da “La notte della cometa”, il romanzo sulla vita del suo “babbo matto”, il poeta di Marradi Dino Campana.

La chimera.

Nel 2020 il romanzo che gli valse lo Strega, “La chimera”, ha compiuto trent’anni. Opera della consacrazione, “La chimera” si apre con una vera e propria dichiarazione poetica: “Nel presente non c’è niente che meriti d’essere raccontato. Il presente è rumore: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi l’una con l’altra, la parola “io”. Io, io, io… Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla.” Nel 2014 Vassalli aveva pubblicato il già citato “Terre selvagge”, ambientato nel 101 a. C., al tempo della battaglia dei Campi Raudii e della spedizione di Caio Mario contro i Cimbri, alle falde del Monte Rosa, laddove l’autore aveva messo radici. Più che nei precedenti, Vassalli giunge con questo romanzo al compimento: il mondo dei primordi, raggiungibile solo a forza di ritorni sempre più impervi, alla ricerca di “quelle poche pagliuzze di felicità che rimangono in fondo alla memoria come l’oro sul fondo della bàtea”, diventa la sintesi della realtà. In venti secoli il mondo è rimasto fedele solo alle pietre, alle montagne imperturbabili che svettano ne cielo immacolato. Tutto il resto è “un nulla pieno di storie”. L’uomo è una “mela marcia” e non “resteranno che spazi vuoti a segnalare… la nostra assenza”.

Il mestiere dello scrittore.

Il mestiere dello scrittore serve a questo: comprendere, come già aveva fatto Omero, l’ineluttabile condizione umana, assimilabile solo a quella delle foglie che mutano all’infinito col passare delle stagioni. Vassalli racconta, comprende e va oltre. Questo è il significato, è questo “l’oro del mondo”: “noi siamo solo i suoi riflessi, le sue illusioni, i suoi zeri…” Cinque anni senza di lui sono troppi, almeno per me sono stati intollerabili. L’ho ricercato in qualche intervista, nei libri, persino negli autografi, ma invano. Sebastiano Vassalli è morto e di lui resta il segno della scomparsa, quasi questa assenza componga la sua più grande opera. I grandi scrittori, in fondo, fanno questo: si sottraggono. Rimbaud lo fece a diciassette anni, dopo aver rivoluzionato la poesia. Preferì vendere armi al Negus d’Etiopia. Syd Barrett abbandonò i Pink Floyd e questa mancanza condusse a “Shine On You Crazy Diamond”. Vassalli è tornato ai mondi senza nomi, dove le cose non si chiamano perché “chi non ha un nome non può morire in eterno”.

In “Terre selvagge” c’è un passo che mi è rimasto impresso. Durante un’ispezione lungo il greto del Po, in una grande pozza d’acqua ristagnata, alcuni soldati romani scoprono un grosso luccio intrappolato. L’animale aspetta quieto la preda e lentamente l’acqua attorno a lui evapora. La pozza, la lamina, come la chiama Vassalli, rimpicciolisce intorno al gigantesco predatore, ma a lui non interessa. Attende la preda, e che sia nutrimento o morte, non ha più importanza. È questo il grande dono di Sebastiano Vassalli.

Concludo senza aggiungere altro, così come avevo iniziato cinque anni fa, coi “Lucci perduti”. Possa per te il luogo essere tepido come è stata la casa:

“Saremo lucci perduti nei fossi,
placidi e voraci, come ombre sul limo.
Lucci scuri, taciturni e fermi,
nell’acqua che immiserisce e evapora.
Così, lentamente, a nuotare tra i salici
a fare agguati ai tordi nel freddo,
mentre il sole c’asciuga,
vivendo un fato solo:
annullati nella polvere, tra rogge bruciate e calde.”


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