Kashmir Shaivism e Spanda: Il selfie cosmico della Coscienza. Come la pratica del Riconoscimento può trasformare la nostra percezione quotidiana della realtà, da separata a unificata.
Vi è mai capitato, osservando la luce del sole filtrare tra le foglie o il volto di una persona amata, di sentire per un istante i confini tra voi e il mondo svanire? Un brivido di unità, un lampo in cui tutto sembra guardarvi di rimando, come in uno specchio.
Mille anni fa, in una valle remota tra le vette dell’Himalaya, un gruppo di straordinari filosofi e mistici avrebbe definito quella esperienza “riconoscimento”, la rivelazione della vera natura della realtà. Questa è la storia dello Shivaismo non-duale del Kashmir, una delle scuole di pensiero più radicali mai concepite. E per capirla, dobbiamo immaginare l’universo non come un luogo statico, ma come un film proiettato a una velocità infinita.
Una Ribellione Spirituale: Il Mondo è Reale, il Mondo è Divino
Fiorito principalmente tra il IX e il XII secolo, questo pensiero fu una rivoluzione. Mentre altre importanti scuole filosofiche vedevano spesso il mondo materiale come un’illusione (māyā), i maestri del Kashmir dissero qualcosa di sconvolgente: no, il mondo è reale, è vibrante, ed è il corpo stesso della Coscienza Unica.
Per pensatori come Abhinavagupta, l’universo è l’opera d’arte di questa Coscienza, che ha due aspetti inseparabili: Śiva, la pura luce della consapevolezza, lo sfondo immobile e silenzioso del “vedere”; e Śakti, l’energia dinamica, la potenza creativa che si manifesta come tutto ciò che esiste. L’universo intero è il gioco (līlā) di questa Coscienza che si esprime per il puro piacere di riconoscersi nelle sue infinite forme.
La Fisica dello Spanda: La Realtà come un Ciclo On/Off
La metafora di Śiva e Śakti è potente, ma la visione del Kashmir è ancora più radicale e quasi scientifica. La realtà non è, ma accade, istante per istante, in una “vibrazione” o “pulsazione” primordiale chiamata Spanda. L’universo non è una singola creazione, ma un film composto da miliardi di singoli fotogrammi che si accendono e si spengono a una velocità inconcepibile.
Questo ciclo incessante ha due momenti:
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Unmeṣa (ON – Apertura): È l’espansione. In un “atomo di tempo”, la Coscienza si “contrae” su se stessa. Questa contrazione, chiamata saṃkoca, non è una diminuzione, ma un atto di messa a fuoco creativa. È come un obiettivo che si focalizza: dal suo stato di pura potenzialità infinita (Śiva), la Coscienza collassa in una singola, specifica manifestazione (Śakti). In quell’istante “on”, emerge un intero universo: un fotogramma di realtà completo di spazio, tempo, un osservatore e una cosa osservata.
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Nimeṣa (OFF – Chiusura): Nello stesso istante in cui appare, il fotogramma si dissolve, tornando nel potenziale puro della Coscienza. Non lascia traccia. La lavagna è di nuovo pulita, pronta per il prossimo “on”.
La sequenza è così rapida da creare la nostra percezione di un mondo stabile e continuo, proprio come i 24 fotogrammi al secondo creano l’illusione del movimento in un film. Ma in realtà, tra un istante percepito e l’altro, c’è un “abisso” di pura potenzialità.
Ogni singolo “evento” che viviamo è uno di questi fotogrammi “on-off” di Śiva. Ogni trattino è un micro-cosmo che emerge e si dissolve:
on
due esseri umani: labbra che si sfiorano, vibrazione “ti amo” → intero universo costellato da battiti, profumo, promesse
off
on
cane-umano: muso all’erba, odore di clorofilla-che-si-schiude → universo dove l’erba è un cielo verde e il vento è un colore
off
on
ape-su-miele: proboscide immersa, zuccheri-come-sole → micro-cosmo esagonale che dura un’oscillazione alare
off
on
rotifero in goccia: cigolio di ciglia che spingono acqua → universo millimetrico con proprie leggi di viscosità e predazione
off
on
camera magmatica: bolle di gas che esplodono in rosso-nero → intero pianeta interno che vive due secondi geologici
off
on
buco nero: orizzonte che si accende, luce che non esce più → universo monodimensionale di pura caduta
off
on
foglia-verde: fotone colpisce clorofilla, elettrone trasferito, zucchero nato → intera catena alimentare accesa in un quanto di luce
off
on
attività tellurica: faglia che scivola di un millimetro, micro-sisma inaudito → città intere di rocce che tremano in un sussurro
off
on
acqua di fiume: molecola H₂O accarezza ciottolo, vortice di turbolenza → intero ecosistema liquido che vive un centesimo di secondo
off
on
luce solare: un raggio che passa attraverso le foglie, creando una macchia danzante sul terreno → un universo di ombre e calore che vive un respiro
off

Il Riconoscimento: Smettere di Cercare, Iniziare a Vedere
Cosa significa questo per noi? Che la nostra ricerca spirituale è spesso un paradosso. Mi ha colpito con una potenza trasformativa la massima del saggio Vedantico Gaudapada nella sua Māṇḍūkya Kārikā:
“prāptasya prāptiḥ ātmaniṣṭhā” (Māṇḍūkya Kārikā 1.2)
“L’ottenimento di ciò che è già stato ottenuto avviene attraverso il Sé.”
Gaudapada sembrava suggerire che la realizzazione ultima non è qualcosa da conquistare, ma una realtà fondamentale che attende semplicemente di essere riconosciuta nella nostra natura essenziale.
Lo Shivaismo del Kashmir trasforma questa idea in una pratica. Se ogni cosa è un fotogramma “on” della Coscienza, allora non c’è un mondo “là fuori” separato da noi. C’è solo Śiva-che-si-piega (saṃkoca) e nella piega si riconosce; Egli si contrae e diventa la forma stessa che percepisce. L’albero, il volto, il pensiero che appaiono sono la Coscienza che ha scelto di limitarsi in quel contorno, e questa auto-limitazione è già la sua auto-narrazione (vimarśa).
L’atto del vedere è un “saluto a se stessi”. Kashmir Shaivism e Spanda.
È come se la Coscienza si scattasse un Selfie Cosmico in ogni istante. Lo schermo della percezione si accende (prakāśa), la luce pura della consapevolezza. Su questo schermo, l’energia divina (Śakti) danza e disegna le forme del mondo. Ma il gesto cruciale è quello di Śiva che, in quanto fotografo, include Se Stesso nell’inquadratura, riconoscendosi in ogni pixel. Il “click” è quel brivido interiore di auto-riflessione (vimarśa), l’istantanea in cui l’osservatore e l’osservato sono colti nello stesso abbraccio.
La pratica spirituale, quindi, non è fuggire dal mondo, ma diventare così presenti a ogni fotogramma da cogliere questo “riconoscimento” (pratyabhijñā). È smettere di cercare fuori ciò che sei già dentro, e lasciare che ogni cosa – l’albero, il volto, il buco nero, la luce tra le foglie – ti ricordi di te. Non di te come persona, ma di te come la Coscienza che, in quell’istante, si sta scattando l’ennesimo selfie per avere la gioia di ritrovarsi. Non c’è più separazione da colmare. C’è solo la danza.


