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Osservatore e Osservato: riflessioni in una pozza di latte

Racconto breve. Un incidente al supermercato, cinque modi di vedere.

Osservatore e Osservato: riflessioni in una pozza di latte. Racconto breve. Un incidente al supermercato, cinque modi di vedere.

Ho scritto questo racconto breve con la curiosità di chi cerca risposte nei gesti quotidiani e nei pensieri inespressi. Amo soffermarmi sui piccoli dettagli: un respiro, un passo, una parola non detta. Mi affascina come tutto questo possa diventare parte di un’unica domanda collettiva, intitolata “Chi?”. Se ti senti attratto dal rispecchiarti nei dubbi e nelle emozioni dei personaggi, allora sei nel posto giusto. Non pretendo di risolvere enigmi esistenziali, ma spero di accendere una piccola scintilla di riflessione ed empatia.

Buona lettura.

“Chi?”

Osservi la scena mentre sei fermo all’angolo del supermercato. Un ragazzino corre, non guarda dove va, e sbatte contro quel ragazzo africano che sta sistemando i cartoni di latte in vetro. Tutto si infrange sul marciapiede, una pozza bianca si espande, i cocci brillano pericolosamente.

“Ecco,” pensi, stringendo inconsciamente la presa sulla borsa della spesa, “questi immigrati. Vengono qui, ci rubano il lavoro, e non sanno nemmeno fare quello come si deve. Un italiano avrebbe messo quei cartoni in un posto più sicuro. Un italiano avrebbe previsto che i ragazzini corrono. Invece questi vengono qui senza saper fare niente…”

Ti allontani scuotendo la testa, sentendoti in qualche modo confermato nelle tue convinzioni.

Mario ha sessantasette anni e una pensione che non basta mai. Ogni mattina si sveglia con un dolore sordo alla schiena e il ricordo di quando il quartiere “era diverso”.

Vedi tutto accadere come al rallentatore. Il bambino che corre, il giovane ragazzo di colore con le braccia piene di cartoni, l’impatto, il disastro. Il rumore del vetro che si infrange ti fa sussultare.

“Santo cielo,” mormori, e senza pensarci due volte, ti avvicini appoggiandoti al tuo bastone. “State bene? Nessuno si è fatto male?”

Cerchi nella tua borsa un fazzoletto, qualcosa per aiutare. “Aspetta, ragazzo, ci sono cocci di vetro, potresti tagliarti. Lascia che ti aiuti…”

Le tue mani sono rugose ma ancora utili. Pensi che potresti essere sua nonna, e che qualcuno deve pur mostrare un po’ di gentilezza in questo mondo indifferente.

Matilde ha ottantadue anni e una collezione di fotografie in bianco e nero. Ha seppellito un marito e cresciuto tre figli. Le sue mani hanno cucinato, pulito, accarezzato e ora tremano leggermente mentre porgono un fazzoletto.

Sei appena uscita dalla farmacia con le medicine per il tuo stomaco quando lo vedi. L’impatto, i cartoni che cadono, il latte che si sparge a terra formando una pozza bianca, densa, che si insinua tra le fessure dell’asfalto.

L’odore dolciastro del latte ti raggiunge e senti immediatamente lo stomaco contrarsi in uno spasmo violento. La nausea, che avevi a malapena tenuto a bada tutta la mattina, ritorna con prepotenza.

“No, no, no,” mormori tra i denti mentre copri la bocca con la mano. Il mondo gira, il latte a terra sembra espandersi, avvicinarsi a te. Giri sui tacchi e corri verso il vicolo più vicino, dove ti pieghi in due e vomiti contro un muro, mentre lacrime involontarie ti rigano le guance.

Chiara ha venticinque anni e una gastrite nervosa che nessuna medicina riesce a calmare. I dottori le hanno detto che dovrebbe ridurre lo stress, ma non le hanno detto come.

Ti fermi ad osservare il caos. Il ragazzino, forse dodici anni, ha appena travolto quel povero commesso. Latte ovunque, vetri sparsi pericolosamente, il commesso che sembra confuso sul da farsi.

“Tipico,” pensi con amarezza. “Questi della generazione Z. Sempre con la faccia sullo schermo, mai che guardino dove camminano. Ai miei tempi sapevamo cosa significava rispetto, attenzione. Questo ragazzino probabilmente stava mandando qualche stupido messaggio su quell’app… come si chiama? TikTak? E ora guarda che casino.”

Scuoti la testa, pensando a come tutto sia cambiato, a come i giovani d’oggi non abbiano alcun senso di responsabilità.

Francesco ha cinquantotto anni e una collezione di vinili che nessuno apprezza più. Ha smesso di tingersi i capelli l’anno scorso e ha iniziato a usare la frase “ai miei tempi” con una frequenza che lo spaventa.

Osservi la scena dal tavolo esterno del bar dove stai bevendo un caffè. Il bambino che corre, l’impatto, il disastro che ne segue.

“Eccoci qua,” pensi, mescolando lentamente lo zucchero nella tazzina, “l’ennesima dimostrazione che il mondo sta andando a rotoli. Nessuno presta più attenzione, tutti distratti, tutti con la testa tra le nuvole.”
Il latte si sparge, come una macchia bianca in un mondo già sporco. Ti sembra l’ennesimo simbolo del degrado, dell’indifferenza, del caos che regna sovrano. Il bambino che non guarda, il commesso distratto, la gente intorno che passa fingendo di non vedere.

“Questo posto fa schifo,” mormori tra te e te, lasciando qualche moneta sul tavolo.

Elena ha quarantun anni e un divorzio fresco. Ogni mattina si sveglia e cerca sui giornali le conferme che il mondo sta peggiorando, e ogni mattina le trova.

Buio. Cartone. Movimento. Il ritmo delle mani scure che mi sollevano. Poi – CRACK.

Mi schianto sull’asfalto, esplodo in mille rivoli bianchi. Il vetro tintinna, si sparge, brilla come cristalli nella mia sostanza. Mi allargo, cerco le fessure, colonizzando ogni crepa del marciapiede.

Una scarpa si ritrae – vecchia, consumata, appartiene a quello che ringhia “questi immigrati”. Un bastone tocca terra vicino a me, trema come le mani rugose che lo impugnano. Qualcuno vomita poco distante, l’acidità si mescola al mio dolciastro nell’aria. Una suola lucida mi schiva con disgusto, mentre più in là gocce di caffè cadono da un cucchiaino che gira ossessivamente in una tazza.

Poi, una scarpa – non so di chi, non importa – mi attraversa. La pressione genera un’onda minuscola nella mia superficie. Un’increspatura apparentemente insignificante che, come insegna la teoria del caos, può trasformarsi in tempesta. Questa perturbazione si propaga, si amplifica, diventa movimento, diventa pensiero. Mi scopro onda, mi scopro movimento, mi scopro flusso.

E in questo fluire sono Swami Vivekananda che pensa: “Solo cadendo nel mare, l’onda può diventare infinita come onda non potrà mai esserlo. Poi, dopo essersi fatta oceano, può tornare a essere onda, e grande quanto le pare. Smetti di identificarti con la corrente e sappi che sei libero.”

Sono oceano ora, contengo ogni giudizio che si riflette sulla mia superficie: il disgusto, la compassione, la nausea, il disprezzo, la rassegnazione.

L’ultima goccia evapora e, prima di dissolvermi, mi chiedo: chi osserva chi?

Osservatore e Osservato

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