La Non Dualità in De Chirico: Pura magia in Ebdomero

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La Non Dualità in De Chirico: Pura magia in Ebdomero. Il sacrificio e la rinascita, il sacro e il profano, l’umano e il divino, si dissolvono nell’unità.

La non dualità in De Chirico. «Là in quella grande cassa di pietra sprovvista d’ogni ornamento ciò che del resto non guastava nulla Ebdòmero lo vide e si vide lui stesso, nudo ed inginocchiato, come Isacco che si offre al sacrificio:

«Dolci pecorelle, sorelle d’Isacco, Non dir quattro se non l’hai nel sacco.»

Curvi su lui, uomini taciturni e severi, con le maniche rimboccate sulle braccia erculee, lo tosavano accuratamente; si vedevano nella semioscurità della stalla i bagliori delle tosatrici d’acciaio. A destra, in un angolo, un raggio di luna che veniva da un abbaino del soffitto, faceva sulla paglia come chiazze d’argento e di mercurio; dall’altro lato, una lanterna posta per terra rischiarava una vacca col suo vitellino vicino, accovacciati tutt’e due nel concime; presso al gruppo degli animali, seduta sopra una panca, con le spalle appoggiate al muro e la testa cascante sul petto, una giovane contadina sonnecchiava circondando con le sue braccia un bambino coricato sulle sue cosce; Ebdòmero osservando i due gruppi della vacca e della contadina, pensò che se un pittore li avesse raffigurati in un quadro avrebbe intitolata la sua opera: le due madri.»

La forza visionaria di De Chirico in Ebdòmero mi ha sempre colpito, ma questo passaggio in particolare mi tocca profondamente, soprattutto in questo periodo dell’anno in cui il tema della natività pervade i nostri pensieri, che siamo credenti o meno.

Ho scelto di condividere proprio questa scena perché racchiude, nella sua complessa semplicità, l’essenza della non dualità: il sacrificio e la rinascita, il sacro e il profano, l’umano e il divino si fondono in un’unica visione onirica ma tremendamente reale. Quello che mi affascina è come De Chirico riesca a sovrapporre diversi piani narrativi: Ebdòmero che vede se stesso come Isacco, pronto al sacrificio, mentre viene tosato come un agnello, in una scena che richiama sia il sacrificio biblico che la più umile quotidianità di una stalla.

La cinematografia della scena è magistrale: il raggio di luna che crea chiazze d’argento e mercurio sulla paglia, e là in quella grande cassa di pietra sprovvista d’ogni ornamento ciò che del resto non guastava nulla Ebdòmero lo vide e si vide lui stesso, nudo ed inginocchiato, come Isacco che si offre al sacrificio.

La semplice ma efficace metafora di Ebdòmero tosato della lana mi fa pensare alla dissoluzione dell’ego, al ‘neti neti’ vedantico, quel processo di sottrazione e spogliamento progressivo che rivela l’essenza ultima oltre le maschere illusorie dell’identità.

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Ma ciò che più mi emoziona è il parallelo tra “le due madri”: la vacca col vitello e la contadina col bambino. In questa immagine si dissolve ogni dualità tra umano e animale, tra natura e cultura. È un’immagine universale che trascende le differenze religiose e culturali, ricordandoci la nostra comune appartenenza al ciclo della vita.

In questo periodo dell’anno, mentre celebriamo la natività – sia come evento religioso che come simbolo universale di rinnovamento – questo brano ci ricorda che siamo tutti parte di un’unica grande narrazione. Il sacrificio di Isacco, la nascita di Gesù, il ciclo naturale della vita nelle stalle: tutto si fonde in un’unica verità che va oltre le apparenti divisioni.

Consiglio vivamente la lettura di Ebdòmero perché è un testo che sfida le nostre percezioni ordinarie, ci invita a vedere oltre le apparenze e ci ricorda che la realtà è molto più complessa e interconnessa di quanto spesso immaginiamo. È un libro che, come questo passaggio dimostra, ha la rara capacità di farci sentire simultaneamente spettatori e protagonisti del grande mistero dell’esistenza.

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