Un proverbio napoletano illumina il concetto di non-dualita’. Come un detto napoletano scuote le fondamenta del pensiero filosofico.
La prima volta che mi sono imbattuto nel proverbio napoletano:
“A femmena parturisce e o’ taùto sta sotto o’ lietto”
“La donna partorisce e la bara è sotto il letto”,
sono rimasto folgorato dalla sua cruda saggezza. Evoca subito alla mente i rischi immensi del parto, ancora oggi un momento critico sia per la madre che per il nascituro. Questo richiamo così forte alla morte proprio nell’istante in cui sboccia una nuova vita è il messaggio più lampante e potente del detto. Ma c’era dell’altro. All’epoca, non potevo certo immaginare quanto profondamente queste parole avrebbero riecheggiato nei miei futuri studi sulla filosofia vedantica.
Meditando su queste parole, mi sono ritrovato a riflettere sul concetto di Maya, quell’illusione cosmica tanto cara al Vedanta. Come può la gioia di una vita appena sbocciata convivere così intimamente con l’ombra della morte? Eppure, in questo apparente contrasto, ho cominciato a scorgere una verità più profonda. Il Vedanta ci insegna che la realtà autentica trascende la dualità che percepiamo nel quotidiano. In questo detto, vita e morte non sono antagonisti, bensì sfaccettature di un unico, grandioso affresco. Mi sono chiesto: non è forse questa la stessa unità fondamentale di cui parlano i saggi del Vedanta?
Samsara
Spingendomi oltre con le riflessioni, ho realizzato come questo proverbio napoletano incarni alla perfezione il concetto di Samsara, quel ciclo infinito di nascita, morte e rinascita. La bara sotto il letto non è un mero memento mori, ma un richiamo al perpetuo girare della ruota della vita. In una scena apparentemente banale del quotidiano, il detto cattura l’essenza stessa del flusso cosmico.
Mi sono ritrovato a riflettere su come questa saggezza popolare, nata nel grembo dell’antichissima cultura partenopea, possa allinearsi così perfettamente con le intuizioni dei saggi vedici. Forse, ho pensato, la verità non conosce confini di cultura o geografia, ma germoglia spontaneamente ovunque l’uomo si interroghi profondamente sul senso dell’esistenza.
Ma c’è dell’altro in questo detto, qualcosa che va oltre la sua affinità con il Vedanta. C’è un che di bizzarro, di straniante, che continua ad affascinarmi. L’immagine che evoca ha del surreale, quasi dell’onirico. Una donna dà alla luce, simbolo di speranza e futuro, mentre sotto di lei si cela la bara, emblema della fine. Questo accostamento genera un senso di straniamento, un momento in cui l’ordinario si tinge improvvisamente di inquietudine.
Straniamento
Mi sono domandato se non sia proprio questa qualità straniante a conferire al detto la sua potenza. Il suo scontro di idee sfida la nostra visione abituale del mondo, aprendo nella nostra mente uno spazio dove possiamo confrontarci con verità scomode ma essenziali. La presenza della morte nell’atto stesso di dare la vita trasforma la dimora in qualcosa di perturbante, per dirla con Freud. Penso che questo proverbio potrebbe essere il seme di un racconto dal sapore unheimlich (inquietante), con quell’inquietudine sottile che permea certe storie di Shirley Jackson.
Intimità
Il letto, luogo di riposo, intimità e nascita, diventa anche custode del nostro destino ultimo. Questa fusione di opposti in un unico spazio distorce il tempo, fondendo passato, presente e futuro in un istante gravido di significato.
Riflettendo su questa singolare saggezza partenopea, mi rendo conto di come funzioni quasi alla stregua di un koan zen. Il suo apparente nonsenso ci costringe a sospendere il pensiero logico, spalancando le porte a una comprensione più profonda e viscerale della realtà.
Forza evocativa
Questo detto ha risvegliato in me la stessa potenza evocativa dei koan zen che celebrano la non-dualità, che ho spesso meditato. Ho sentito l’esigenza di tradurlo in napoletano, la mia lingua, per assimilarlo appieno:
“Sopra, nemmeno una tegola per coprire la testa; sotto, nemmeno un palmo di terra per il piede.”
Ecco la versione in vernacolo:
“Acopp’ manco ‘n’àsteco pe’ cummiglia’ ‘a capa, asott manco ‘na vrancata ‘e turreno p’ ‘o pède.”
Questo connubio di saggezza affine al Vedanta e qualità stranianti offre una chiave di lettura unica per le grandi domande dell’esistenza. Mi rammenta che la verità può manifestarsi nei luoghi più impensati e che, talvolta, è proprio attraverso lo straniamento e il paradosso che riusciamo a cogliere la vera essenza della realtà.
Mentre continuo a rimuginare su questo proverbio napoletano, resto stupefatto da come riesca a racchiudere tanta complessità esistenziale in una forma così concisa. È una testimonianza della profondità della cultura partenopea, con la sua lingua ricca che l’UNESCO giustamente annovera tra i tesori culturali. Non si tratta di un mero dialetto, bensì di una lingua completa, capace di esprimere le più sottili sfumature del pensiero.
E dunque?
Questo proverbio napoletano mette in discussione la tendenza contemporanea a compartimentalizzare nascita e morte. Oggi si viene al mondo negli ospedali e si muore nelle case di riposo, relegando questi momenti cruciali dell’esistenza ai margini della quotidianità. Il detto partenopeo, al contrario, li riconduce al cuore della casa, costringendoci a confrontarci con l’intero ciclo vitale nel nostro spazio più intimo.
Inoltre, il proverbio parla delle due facce della medaglia umana – la gioia e il dolore, la speranza e la paura, che scandiscono il nostro cammino terreno. Ci ricorda che persino nei momenti di massima felicità, l’ombra della morte è presente, non come una minaccia cupa, ma come componente imprescindibile della condizione umana.
Nel suo amalgama di profondità e quotidianità, questo frammento di saggezza napoletana continua a essere fonte inesauribile di ispirazione e riflessione. Si erge come un ponte tra culture, filosofie e i due volti dell’esistenza, offrendoci una lente unica attraverso cui scrutare i grandi misteri della vita. Mentre continuo a sondarne le profondità, mi rendo conto di come la saggezza popolare possa illuminare verità universali, e di come il linguaggio riesca a catturare la complessità dell’esperienza umana in tutta la sua ricchezza.
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