Anna Maria Ortese Il mare non bagna Napoli: toccante, profondo, unico

Un paio di occhiali su un formicaio in macerie.

Anna Maria Ortese Il mare non bagna Napoli: toccante, profondo, unico. Un paio di occhiali su un formicaio in macerie. Lo sgomento della piccola Eugenia, riportato ai tempi del Coronavirus.

Anna Maria Ortese Il mare non bagna Napoli: si tratta di una  raccolta di racconti che svela un mondo crudo, scomparso, ma stranamente attuale. Ortese diede alle stampe Il mare non bagna Napoli nel 1953, nella collana “I gettoni”, curata da Elio Vittorini per Einaudi. Erano libri esili I gettoni, grossolani, quasi, dal punto di vista tipografico, privi d’illustrazioni in copertina, che volevano dire tutto solo con le parole, come deve essere. La collana pubblicò Calvino, Fenoglio, Cassola, tra gli altri, in un momento in cui, dopo la guerra, restavano soltanto “i segni del falò”, per dirla con Pavese.

Il mare non bagna Napoli fu giudicato, purtroppo, un libro “contro Napoli”. “Questa condanna mi costò un addio, che si fece del tutto definitivo negli anni che seguirono, alla mia città”, scriveva la stessa Ortese anni dopo, nella prefazione all’edizione Adelphi del libro, considerando con archeologica struggenza questo distacco da Napoli, patria d’elezione che aveva abitato dal ’28, quando ci si era trasferita con la famiglia, lei che era vissuta un po’ dappertutto in Italia.

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Dopoguerra a Napoli. Foto di David “Chim” Seymour.

Anna Maria Ortese Il mare non bagna Napoli. “Qualcuno aveva scritto che questa Napoli rifletteva una lacera condizione universale. Ero d’accordo… Ero chiusa io stessa in quel nero seme del vivere e, perciò… gridai. Erano molto veri il dolore e il male di Napoli, uscita in pezzi dalla guerra… Questo orrore – che le attribuii – fu la mia debolezza”. Anna Maria Ortese fa uscire Napoli, come Malaparte, come Eduardo. Il suo è un mondo distratto e disperato. Affine evidentemente alla materia del neorealismo, la Napoli che viene fuori dal Mare fa spavento. Chi ha visto L’amica geniale in TV potrà farsene un’idea. La Napoli della Ortese è come il rione Luttazzi di Lila e Lenuccia: un limbo, un’accecante metafisica alla maniera di De Chirico, in cui stanno sospesi gli uomini e le cose tutte. Né vivi, né morti, sempre a mezzo tra la dannazione e il Paradiso.

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Dopoguerra a Napoli. Foto di David “Chim” Seymour.

È così la vicenda di Eugenia, protagonista di Un paio d’occhiali. Nel racconto, questa bambina dal “viso di piccola vecchia, i capelli come stoppa, tutti arruffati, le mani ruvide, legnose, con le unghie lunghe e sporche”; “tutt’altro che bella”, insomma; “cecata”, per giunta, vive un’esistenza miserevole nel “formicaio” di vico Cupa a Santa Maria in Portico, a Chiaia, confortata soltanto dalla promessa d’un paio d’occhiali che le permetteranno di guardare quel mondo che “è meglio non vederlo che vederlo”.

“Fino allora, era stata avvolta in una nebbia… Tutto era coperto per lei da un velo sottile: solo il viso dei familiari, la mamma specialmente e i fratelli, conosceva bene, perché spesso ci dormiva insieme… La mamma dormiva con la bocca aperta, si vedevano i denti rotti e gialli; i fratelli… sempre sporchi e coperti di foruncoli, col naso pieno di catarro: quando dormivano, facevano un rumore strano, come se avessero delle bestie dentro”.

Dopoguerra a Napoli. Foto di David “Chim” Seymour.

L’emozione, l’ansia di vedere di Eugenia dura una mattinata: quando inforca per la prima volta gli occhiali, costati “ottomila lire, vive vive!”, a sorprenderla è una realtà mostruosa, ripugnante: Quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente… Che facevano? Dove andavano? Uscivano e rientravano nei buchi, portando grosse briciole di pane, questo facevano, avevano fatto ieri, avrebbero fatto domani, sempre… sempre”. Alla fine, lo sgomento di Eugenia è così forte che le viene da vomitare e, naturalmente, tutti danno colpa agli occhiali.

Insomma, bastano “’nu pare ‘e lenti” a vederci chiaro. Quella di Anna Maria Ortese è una diagnosi di miopia che, a quanto pare, all’epoca come oggi, pare azzeccata. Napoli usciva da una guerra che l’aveva spolpata, che aveva trasformato gli uomini in cose indefinibili, confuse tra la bestialità e l’amore. Leggete Il mare non bagna Napoli, leggete pure La pelle di Malaparte, per capire bene. Però, quegli occhiali, a quanto pare, nessuno voleva metterli davvero, e restare “cecati” era meglio, perché andare a tentoni giustifica ogni nuova caduta. Ecco, dunque, il motivo di quelle aspre critiche che motivarono la rottura tra Ortese e Napoli.

Dopoguerra a Napoli. Foto di David “Chim” Seymour.

Mentre leggevo il racconto per scrivere queste righe, sono andato a cercare su Google Maps quel vicolo Cupa a Santa Maria in Portico. Mi faceva un effetto strano. Mi pareva quasi che cercare il di fuori fosse un atto illecito, e che quel vicolo, e il quartiere di Chiaia tutto, non fossero più che una mezza chimera, non del tutto leggendaria, né del tutto verace. La mia, insomma, era divenuta una caccia alla bestia impossibile, e le figure di Google Maps restavano segni inerti di un tempo e di un luogo forse irraggiungibili, come il Gange e i caimani che Salgari andava a spiare tra i tronchi deformi e arenati sulle rive piemontesi del Po.

Dopoguerra a Napoli. Foto di David “Chim” Seymour.

Quella miopia pare abbia sovrastato tutto. È una condizione non più solo della vista, ma del corpo tutto. La realtà, in questo nostro confino, è spezzata. La ragione, attraverso i “tanti buchi”, abitati dalle “tante formiche”, è distorta. Siamo tornati ad essere gli uomini a metà dei racconti di Anna Maria Ortese, o meglio, questo velo paralizzante in cui siamo intrappolati è diventato i nostri occhiali, e quello che vediamo è spaventoso. Non è solo colpa del Coronavirus. Il virus è una macroscopia. Sapere perché il mostro di Frankenstein è gigantesco? Per rivelare più chiaramente i processi organici. È la stessa cosa. Il virus svela soltanto una verità prima celata, ingrandendola tanto da renderla finalmente chiara.

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Dopoguerra a Napoli. Foto di David “Chim” Seymour.

Napoli è così miope, a volte, che non vede neanche il mare, perciò sembra quasi che le sue acque non bagnino i suoi lidi, che non ci sia neppure. Lo dimentichiamo. Però, mi viene da chiedere, quanti di noi l’hanno sognato o hanno tentato di scorgerlo anche solo in spiraglio nelle lunghe giornate e nelle notti insonni della quarantena? Il mare nostro è l’antidoto a tutto, è forse l’unico mezzo che ci può salvare davvero dai rischi della nostra cecità. Basta solo un atto di fede: ricordare che esiste, che, alla fine dei vicoli e dei budelli, si aprono la luce e la vastità.

Dopoguerra a Napoli. Foto di David “Chim” Seymour.

Torneremo di nuovo alle case un giorno dopo esserci crogiolati nella luce d’oro, coi piedi pieni della sabbia nera di Miseno, così sottile e tenace che ci dormiremo giorni insieme a letto, e nel cuore la vista lontana di Procida, sospesa sull’acqua color pervinca. Verrà il giorno in cui ci sarà bastato restare in spiaggia e avremo voglia di tornare indietro, perché il mare non bagna Napoli, e pure è là fuori.



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