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I bassi napoletani: il ventre di Napoli tra storia, tradizione e poesia

I bassi napoletani: il ventre di Napoli tra storia e tradizione.

“Case in cui si cucina in uno stambugio, si mangia nella stanza da letto e si muore nella medesima stanza dove altri dormono e mangiano; case i cui sottoscala, pure abitati da gente umana, rassomigliano agli antichi, ora aboliti, carceri criminali della Vicaria.”
Questa la spietata descrizione dei bassi napoletani effigiata da Matilde Serao nel suo “Il ventre di Napoli”.

Stanze che rimbombano di pittoresca poesia.

Stanze dove non batte mai la luce calda dei raggi del sole, anguste, dallo spazio ridottissimo, che assorbono la vita truculenta della strada; stanze che brancolano nel buio, agghindate da delle lenzuola che pendono dai balconi a mo’ di un carnevale dalla fine ignota, gremite di persone. Stanze che rimbombano di pittoresca poesia, ancorate ad una tradizione destinata a non morire, perfetto affresco della sublime essenza di Napoli.
Fin dal XIV secolo, il basso (in dialetto “o vascio”) è sempre stato teatro di molteplici eventi storici. Apparsi per la prima volta sotto la dinastia aragonese, i bassi nacquero per ospitare le popolazioni “migranti”, provenienti dalle campagne.

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Le testimonianze di Benedetto Croce.

Ben presto gli abitanti di queste minuscole e disagevoli dimore si moltiplicarono a macchia d’olio fino a dar vita ad un vero e proprio fenomeno di sovrappopolamento, prolungatosi fino al 1880, quando, come riporta una testimonianza di Benedetto Croce, il ministro De Pretis, in visita a Napoli in compagnia del re Umberto, pronunciò queste intemperanti parole: “Bisogna sventrare Napoli”. La risposta altrettanto efferata e temeraria non si fece attendere. Matilde Serao, ancora una volta, subitaneamente affermò:
“Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli? […] Per distruggere la corruzione materiale e quella morale, per rifare la coscienza e la salute a quella povera gente, per insegnare loro come si vive […] – per dire loro che essi sono fratelli nostri, che noi li amiamo efficacemente, che vogliamo salvarli, non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla.”

La Napoli milionaria di Eduardo De Filippo.

Se il fascismo decretò l’evacuazione da quelle stesse abitazioni malandate, seppur dal tocco grottesco e vagamente felliniano, durante il secondo conflitto mondiale i bassi furono occupati di nuovo, rivangando il passato. E proprio a cavallo tra gli anni 40 e gli anni 50, Eduardo De Filippo ambienta la commedia “Napoli milionaria” proprio in quelle stanze, le cui mura trasudano storia, stravagante bellezza e inimitabile pittoricità. Il testo teatrale fu ripreso da Dino De Laurentiis, che ne affidò la regia allo stesso Eduardo. Il maestro del teatro napoletano dipinse con supremo e perentorio realismo la quotidianità recondita e sordida dei bassi, al punto che la critica insinuò che egli avesse diffamato Napoli e i suoi abitanti. Eduardo, al contrario, “aveva ripulito i bassi”, denunciandone la miseria, come illustrò in un articolo dell’Unità, scritto nel 1950.
Covo di poesia e brulicante folclore, attualmente queste dimore sono adibite ad un uso commerciale, sebbene esse si ascrivino sempre alla tradizione napoletana, conservando intatta ed incorruttibile la loro memoria.

Clara Letizia Riccio

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