I Ritornanti di Enzo Moscato: fantasmi come presenze tangibili. Percepire Napoli come un luogo abitato non solo dai vivi, ma da presenze evanescenti.
Leggendo Enzo Moscato, e in particolare immergendomi nel suo universo dei “Ritornanti”, la mia mente corre subito a un’ispirazione fondamentale che lo stesso autore riconosce: Anna Maria Ortese. Nel tessuto narrativo di Moscato riecheggia, con suggestiva rievocazione, la voce della grande scrittrice: “Avevo dimenticato i piccoli esseri che incontravo tutti i giorni per i vicoli e le rampe, le scalette e le piazzette, che congiungono i quartieri alla collina verde.” E ancora: “Sentivo che una parte della popolazione presente era di anime morte. Anime di ritornanti”. Una raffinata trasposizione letteraria attraverso cui Moscato restituisce quella particolare sensibilità ortesiana nel percepire Napoli come un luogo abitato non solo dai vivi, ma da presenze evanescenti. È proprio questa percezione – quella di una città porosa, abitata non solo dai vivi ma da queste “anime perdute, evanescenti ma eterne” – che ritrovo, amplificata e resa materia incandescente, nell’opera di Moscato, spesso pubblicata dalla preziosa Cronopio Edizioni.
È in questa Napoli vibrante di presenze che seguo, quasi trattenendo il respiro, Nannina e Totore nella loro ricerca di una casa. Li accompagno idealmente dietro la vecchia sensale Sanzara, su per Salita Paradiso, verso quel basso nei Quartieri Spagnoli il cui prezzo troppo basso suona come un campanello d’allarme. C’è sempre un motivo, e con Moscato quel motivo affonda spesso le radici nell’inquietudine, nel non detto, nell’energia sotterranea di quella che lui definisce una “città/universo mondo”. Moscato ne è uno degli ultimi, potentissimi cantori, capace di spingere parola, corpo e linguaggio a “contaminarsi e interagire in una dimensione sperimentale del tutto inusuale e quasi onirica”.
E qui sento la necessità di distinguere. Penso al genio di Eduardo De Filippo e ai suoi fantasmi, in particolare in “Questi Fantasmi!”. Ricordo la sua maestria nel mostrarci come le apparizioni nel vecchio palazzo fossero, in fondo, proiezioni delle paure, delle colpe, delle illusioni dei vivi. Come non pensare alla battuta iconica di Pasquale Lojacono: “Non è vero! I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi, siamo noi i fantasmi!”? Erano le ombre che l’individuo e la società del dopoguerra portavano dentro, maschere per coprire sofferenze e fallimenti. Ma i ritornanti che incontro in Moscato mi appaiono diversi. Non li percepisco come semplici metafore o proiezioni psicologiche. Hanno una consistenza fisica, una tangibilità disturbante. Sono presenze reali che agiscono nello spazio, muovono oggetti, sussurrano, interagiscono con i vivi in modo concreto, spesso perturbante. Sono davvero quelle “anime morte” di cui parlava la Ortese, rese da Moscato entità quasi carnali, che ri-abitano i luoghi e ci “assillano” nella realtà e nella memoria.
Questa concretezza dell’invisibile mi riporta inevitabilmente al realismo magico latinoamericano. Penso a “Pedro Páramo” di Juan Rulfo, a quel viaggio di Juan Preciado verso Comala, un villaggio trasformato in un regno di sussurri, dove i morti continuano a parlare e il confine tra i mondi si dissolve nella polvere. Trovo un’affinità profonda nella rappresentazione di questa membrana porosa tra vita e morte. Eppure, avverto anche una differenza fondamentale nell’atmosfera: se Comala mi trasmette un senso di silenzio desolato, di vuoto abitato solo da echi, la Napoli di Moscato è un tumulto sonoro, un caos vitale dove i vivi e i morti si scontrano e si mescolano nel frastuono dei vicoli, nelle stazioni della metropolitana, coesistendo in una prossimità quasi intollerabile.
Ma c’è un’altra opera che l’esperienza fisica della lettura di Moscato mi evoca in modo quasi tattile: è il racconto “Chac Mool” di Carlos Fuentes. Ricordo perfettamente l’angoscia crescente che provai leggendo di quella statua antica che prendeva vita, diventando una presenza umida, ingombrante, minacciosa nella casa del protagonista. Ecco, leggere Moscato mi restituisce una sensazione fisica simile: un disagio palpabile, la percezione inquietante di un “altrove” che non resta confinato nel passato o nel mito, ma che preme, invade il presente, si fa sentire sulla pelle. È la sensazione disturbante di una presenza aliena che si manifesta qui e ora.
E credo che questa forza derivi anche dal modo in cui Moscato àncora queste visioni nella realtà specifica, pulsante di Napoli. Penso all’Ipogeo di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, a quel culto vivissimo delle anime pezzentelle. Non lo vedo come semplice folklore, ma come la prova tangibile di quel dialogo incessante tra vivi e morti che Moscato mette in scena con tanta potenza. La sua lingua stessa, un napoletano reinventato, teatrale, aspro e lirico insieme, mi sembra lo strumento perfetto per catturare questa realtà stratificata, per dare voce all’indicibile.
Alla fine, chiudendo il libro edito da Cronopio, o ripensando alle intense trasposizioni sceniche o cinematografiche del lavoro di Moscato, mi resta addosso una sensazione persistente. I suoi ritornanti, ispirati dalla sensibilità della Ortese e capaci di evocare l’inquietudine tangibile di un Fuentes o la profondità metafisica di un Rulfo, non se ne restano buoni tra le pagine o confinati sul palco. Continuano a vagare nella mia mente, figure potenti e perturbanti. Ed è forse questo il segno più forte dell’arte di Moscato: la capacità di creare presenze che continuano a interrogarci, a disturbarci, ben oltre la fine della lettura o della visione.