Ho Paura Torero con Lino Guanciale al Teatro Bellini di Napoli. Uno spettacolo merita un plauso convinto.
Santiago, metà anni 80… l’eco lontana di Allende, poi quel sorriso agghiacciante sullo schermo, Pinochet e la sua Lucia… e subito dopo Fata, che ricama, fragile eppure combattiva.
Ho Paura Torero con Lino Guanciale al Teatro Bellini di Napoli, un pugno nello stomaco, un’immersione senza preavviso in un mondo di ombre e di un amore che non conosce resa. Tratta dall’omonimo romanzo di Pedro Lemebel, l’opera ci conduce nel cuore della Santiago del Cile di metà anni ’80, sotto l’opprimente cappa della dittatura di Pinochet, attraverso gli occhi di La Fata dell’angolo. Lemebel, nato negli anni Cinquanta in un quartiere popolare di Santiago, fu un faro per la liberazione omosessuale e una voce tagliente contro il regime. La sua unica opera narrativa continua a vibrare con una purezza di tono e una lucidità di sguardo che toccano l’anima.
Lino Guanciale incarna con maestria il personaggio di Fata, un travestito non più giovane il cui destino incrocia quello di Carlos, uno studente universitario che ne conquista il cuore, durante una retata a cui Fata riesce a sfuggire. Tuttavia, Carlos cela un segreto pericoloso: utilizza la soffitta di Fata come rifugio per armi e documenti del Fronte Patriottico Manuel Rodriguez. Nonostante i suoi presentimenti, Fata accetta questo scomodo segreto per amore, un sentimento che tutto comprende.

Lo spettacolo si schiude con le immagini dell’ultimo discorso di Salvador Allende, proiettandoci immediatamente nell’atmosfera soffocante ma carica di speranza di quell’epoca. Sullo schermo, i sorrisi di Pinochet e di sua moglie Lucia stridono con il racconto di Fata, che ci introduce alla sua vita umile in un quartiere popolare, dove ricama tovaglie destinate alle mogli dei militari. La sua quiete viene turbata dall’arrivo di Carlos, che con un appellativo lusinghiero – diva – suscita in lei una risposta intrisa di amara ironia: Noi dive non conosciamo la rabbia, non ne abbiamo il diritto.
Quando Fata intuisce la vera natura delle attività di Carlos, sceglie di diventare sua complice, adottando come parola d’ordine un sussurro carico di presagio: Ho paura torero. L’attentato a Pinochet del 7 settembre fallisce, e la sala si popola improvvisamente di manifestanti, un’irruzione che simboleggia una piazza in fermento. Le immagini spettrali dei desaparecidos che appaiono sul fondale, le intense scene interpretate da Guia Buzzi, le evocative luci di Max Mugnai e le musiche di Davide Fasulo si fondono in un momento di forte suggestione e profonda partecipazione emotiva, sapientemente orchestrato dalla regia di Claudio Longhi.
Le scenografie, di squisita fattura e in continua metamorfosi, si integrano perfettamente con una fotografia che gioca sapientemente con calde tonalità e delicate sfumature di giallo. Questo effetto mi ha particolarmente colpito nell’ultimo quarto dello spettacolo. In una delle scene più intense e suggestive, quella tra Fata e Carlos sul proscenio, una luce laterale di un caldo giallo tizianesco li avvolge, creando un’atmosfera di profonda intimità e una palpabile osmosi tra attori e spettatori. Questa fusione trascende i confini convenzionali tra teatro, palcoscenico e finzione, trasformandosi in un’esperienza psicocorporea totalizzante, simile a quella straniante in cui l’osservatore dell’Axolotl di Julio Cortázar si immedesima al punto da sentirsi egli stesso l’animale nell’acquario.
Il palcoscenico pulsa di vita, con i personaggi che emergono da ogni direzione, come spinti dai venti di una rosa: dall’alto, dal basso, da ogni anfratto. Questa dinamicità cattura lo sguardo dello spettatore, guidandolo con la fluidità di un montaggio cinematografico, sorretto dalla impeccabile coesione del cast. Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame, Michele Dell’Utri, Lino Guanciale, Diana Manea, Mariano Pirrello, Sara Putignano e Giulia Trivero offrono una prova attoriale di rara precisione.
La performance di Guanciale è stata semplicemente straordinaria, risvegliando in me echi di Tootsie interpretato da Dustin Hoffman e della Mrs. Doubtfire di Robin Williams. La sua capacità di incarnare il personaggio con una naturalezza disarmante, senza mai perdere un briciolo di autenticità, mi ha profondamente commosso. Guanciale riesce a esplorare la sua dimensione femminile con una tale verità da evocare i rituali ancestrali di trasformazione di genere dell’antica Grecia. Durante l’Ekdysia, la festa cretese dedicata a Leto, spose e sposi si scambiavano le vesti, annullando simbolicamente le distinzioni tra i sessi. Nei misteri dionisiaci, uomini e donne assumevano liberamente attributi del genere opposto, seguendo l’esempio del loro dio Dioniso, celebrato per la sua natura androgina.
Il cuore del personaggio, le musiche ricercate e i costumi curati nel dettaglio mi hanno riportato alla mente l’universo cinematografico di Ferzan Ozpetek, che da oltre vent’anni esplora con grazia e sensibilità il mondo LGBTQIA+. In un momento dello spettacolo, osservando Fata danzare, il mio pensiero è corso alla celebre scena di Mine vaganti in cui gli amici ballano in riva al mare sulle note di Sorry, I’m a Lady del duo Baccara, strappando al protagonista un sorriso imbarazzato ma profondamente sincero. È un istante di autenticità disarmante, che nella pièce teatrale, come nel film, celebra la gioia e la fierezza dei corpi, lo splendore di una libertà pienamente vissuta.
Pinochet e sua moglie, magistralmente interpretati da Mario Pirrello e Arianna Scommegna, appaiono come macchiette grottesche che suscitano al contempo il riso e un brivido di inquietudine. Lui, in divisa anche sotto il sole cocente, lei, ossessionata dalle calzature, divengono emblematiche di tutte le mogli dei dittatori.
“Ho paura torero” indaga le pieghe intime e sentimentali dell’esistenza in un’epoca segnata dall’intolleranza e dall’oppressione. L’amore di Fata è un amore infelice, eppure lei si abbandona all’illusione, scegliendo di credere a ciò che il suo cuore desidera. Lino Guanciale veste i panni di Fata con una precisione chirurgica, commuovendo e divertendo con una spontaneità disarmante. Francesco Centorame offre un’interpretazione convincente di Carlos.
Sebbene la durata possa apparire considerevole (tre ore), le ambientazioni, le luci e la coreografia sono vibranti e realizzate con maestria. A mio parere, questo spettacolo merita un plauso convinto, un riconoscimento per la qualità del vero teatro, che qui si manifesta in tutta la sua forza espressiva.
Ho Paura Torero con Lino Guanciale