L’ubriaco di Zhuangzi: esplorazioni sul Taoismo in discoteca. Dalla pista da ballo alla saggezza interiore.
L’ubriaco di Zhuangzi. La musica rimbomba, i bicchieri tintinnano e le risate riempiono l’aria. Mi trovo in un locale elegante vicino Napoli per una festa di laurea. Le aree VIP e le sezioni esclusive dovrebbero segregarci in base al nostro status sociale ed economico, ma stasera queste barriere invisibili che ci classificano e ci separano si dissolvono come la nebbia mattutina sotto i raggi del sole. Mentre sorseggio il mio drink, la parabola dell’uomo ubriaco di Zhuangzi mi torna in mente, quella che avevo condiviso nell’aprile 2024 sul mio blog Learn Vedanta Substack. Ora, con una prospettiva rinnovata che solo l’esperienza vissuta può offrire, tutto sembra diverso.
La serata avanza e succede qualcosa di straordinario. Le divisioni accuratamente costruite – le sezioni private, le gerarchie sociali – si dissolvono completamente. L’alcool allenta le inibizioni, certo, ma c’è qualcosa di più profondo in gioco. Senza rendercene conto, siamo diventati l’incarnazione vivente della parabola di Zhuangzi.
A proposito di questa parabola, vorrei richiamarla alla memoria:
“Se un ubriaco cade da un carro, può procurarsi qualche livido ma non morirà mai. Le sue ossa e articolazioni sono uguali a quelle degli altri uomini, ma il colpo che ucciderebbe un uomo sobrio non lo uccide. Questo perché la sua anima rimane intatta grazie all’ubriachezza, ed egli non è consapevole di essere sul carro o di cadere da esso. Lo shock, la paura della morte e della vita non lo penetrano; cade pericolosamente ma senza provare il minimo spavento.”
(da “Zhuang-zi [Chuang-tzu]” da Carlo Laurenti e Christine Leverd (Biblioteca Adelphi, 121, 1982)
Anima intatta
La parabola dell’uomo ubriaco racchiude significati profondi oltre la semplice intossicazione. L’espressione “la sua anima rimane intatta” indica uno stato in cui l’individuo è libero dalla consapevolezza concettuale e giudicante. L’ubriaco non etichetta l’esperienza come pericolosa, quindi non prova paura. Questo stato rappresenta metaforicamente la liberazione dall’ego e dalla mente discorsiva, permettendo un ritorno alla spontaneità naturale del Dao, incarnando il principio del wu wei, l’azione senza sforzo. Non si tratta di promuovere l’ubriachezza fisica, ma di illustrare una condizione di coscienza ideale: un’integrità interiore che rende invulnerabili di fronte alle sfide della vita.
Ecco esattamente cosa stava accadendo quella sera: l’uomo ubriaco cade dal carro illeso perché non sa di dover avere paura. E noi, in quella festa, stavamo tutti “cadendo” insieme, in un’esperienza unificata dove le distinzioni cessavano di avere importanza. I gruppi che erano arrivati separatamente si sono fusi e mescolati con naturalezza, le risate hanno colmato ogni divario sociale, e la musica ci ha trasportati tutti in una corrente unica di esperienza condivisa.
Tao Yuanming
Questa riflessione mi ha fatto pensare anche alla poetica di Tao Yuanming, poeta cinese del IV secolo, e al suo rapporto con il vino. Nella tradizione cinese classica, troviamo il concetto di xian (闲), che evoca una profonda quiete interiore. Il carattere stesso suggerisce un’immagine potente: un albero che si erge in un cortile, o nella sua forma alternativa (閒), una luna che splende attraverso una porta aperta. Non si tratta di pigrizia, ma di una quiete contemplativa che conduce al Dao, diventando parte essenziale della quotidianità.
Il bere vino, tema ricorrente nella poesia di Tao Yuanming, non va interpretato come mera inclinazione all’ubriachezza. I biografi dell’epoca lo associavano spesso alla sua personalità eccentrica, ma l’inebriamento per Tao rappresentava un mezzo per raggiungere quella particolare serenità che permette la contemplazione e, attraverso essa, la trascendenza. Era uno stato di libertà mentale in cui cadono le inibizioni e le distinzioni artificiose, favorendo un senso di unità con il mondo circostante – in sostanza, un ritorno al vero sé.
Questa quiete porta al concetto di ziràn 自然, spontaneità e naturalezza, che è centrale nel taoismo. Questo concetto risuona magnificamente nella sua poesia “Bevendo il vino (VII)”, presente nella raccolta “Bevendo il vino” da Antonio Cosimo De Biasio (La Biblioteca della Dimora, Quaderni di traduzioni LXXVIII):
“Autunno, i crisantemi han bei colori,
Li bagna la rugiada e io colgo i fiori.
Così sto a galla e scordo le tristezze,
E allontano le emozioni del mondo.
Se anche svuoto una brocca da solo,
La tazza esausta la riempio di nuovo.
Il sole arriva e tutti i moti cessano,
Torna ogni uccello e la foresta trilla.
Fischietto sotto la grondaia a est,
E pian piano mi riprendo la vita.”
Feste
Ho partecipato a tante feste nella mia vita, e ringrazio il cielo per avermi sempre donato tanti amici e tante occasioni per divertirmi, ma questa ha avuto un sapore diverso. Le filosofie che studio, in questo caso il taoismo, “ancora una volta” si erano trasformate in una saggezza incarnata che ha colorato l’intera esperienza.
In quel momento di convivialità alticcia, sono stato colpito da un’intuizione profonda, una di quelle comprensioni che nel corso della mia vita hanno illuminato il percorso, con una nitidezza ancora più marcata del solito. Le filosofie che ho studiato si erano trasformate in una specie di antifurto interno – vivide e tangibili come l’ansia o la paura che normalmente ti trattengono, ma nella loro forma contraria: invece di limitarti, ti fanno stare bene, ti sollevano da terra. È una saggezza corporea che emerge come intuizione di impatto, come un’improvvisa chiarezza che inizialmente ti lascia stupito.
All’inizio rimane il fischio nelle orecchie, metafora perfetta di questo processo: dall’intuizione iniziale, l’attenzione si sposta verso questo fischio, che rappresenta l’inizio del sedimento del ragionamento. Con il passare del tempo, il sibilo svanisce gradualmente, le sensazioni corporee si attenuano, e ciò che resta è la pura mentalizzazione dell’esperienza, la cristallizzazione del pensiero nella sua essenza più autentica.
Bellezza
Questa è la bellezza del percorso filosofico quando diventa vissuto: gli insegnamenti della non-dualità non sono più semplici idee che avevo studiato sui libri; sono diventati la lente attraverso cui sperimento la realtà quotidiana. In quella festa, ho compreso visceralmente cosa intendeva Zhuangzi parlando dello stato senza forma in cui la separazione si dissolve. Non eravamo solo persone a una festa – eravamo la festa stessa, espressioni dello stesso movimento cosmico che tutto abbraccia e unifica.
“Tutto ciò che ha un volto, una forma, dei colori ed emette suoni è un essere. Come possono questi esseri distinguersi l’uno dall’altro? Poiché sono semplicemente forme, come può uno superare gli altri? Ma l’essere che raggiunge l’informe dimora nell’immutabile. Se va fino in fondo, come potrebbe essere ostacolato da altri esseri? Ha afferrato la giusta misura, l’essenza nascosta, l’inizio e la fine di tutti gli esseri.”
(da “Zhuang-zi [Chuang-tzu]” da Carlo Laurenti e Christine Leverd (Biblioteca Adelphi, 121, 1982)
l’ubriaco di zhuangzi