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Toni Servillo legge Enzo Moscato in Sala Assoli ed incanta

La napoletanità è emersa cruda, spoglia, come un'anima messa a nudo sotto il cielo della città.

Toni Servillo legge Enzo Moscato in Sala Assoli ed incanta il pubblico. La napoletanità è emersa cruda, spoglia, come un’anima messa a nudo sotto il cielo della città.

Torni Servillo legge Enzo Moscato. Ieri sera, nei Quartieri Spagnoli di Napoli, ho vissuto un’esperienza che ha scosso le mie radici napoletane fino al midollo. Alla Sala Assoli, in quello spazio intimo di appena 97 posti, Toni Servillo ha dato voce a “Partitura” di Enzo Moscato, e l’ho vissuta con l’anima di chi è cresciuto tra Materdei e Vico Santa Margherita a Fonseca, dove i miei nonni mi hanno trasmesso quel codice culturale fatto di carne e sangue, di storie vissute e patite, di gesti antichi e parole dense di significato.

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Ho attraversato infinite volte il quartiere Stella, vera e propria polis greca incastonata nel ventre di Napoli, che prende il nome dal suo santuario, chiamato così per l’icona mariana che raffigura la Madonna con una stella sul capo. Un microcosmo autonomo del centro storico che conserva intatta l’architettura napoletana più autentica, con il suo reticolato di vicoli e gradini che si intersecano come vene pulsanti. In questo dedalo di pietra e vita si trova vico Pero, dove Giacomo Leopardi esalò il suo ultimo respiro il 14 giugno 1837, stroncato dall’idropisia, in quella che fu la sua ultima dimora terrena. Ogni gradino di tufo, ogni vicolo che si inerpica, custodisce una storia, un pezzo di quell’umanità viscerale che solo Napoli sa generare.

Moscato ha creato un’opera di travestimenti stratificati, dove lui stesso indossa le vesti spirituali di Leopardi, trasformando Napoli in un palcoscenico vivo, un “ventre di janàra” che divora e restituisce emozioni. E Servillo, quasi intimidito dalla potenza di quelle parole, ha dato corpo a questa metamorfosi con una maestria che mi ha fatto tremare il cuore. La sua voce ha trasformato la piccola sala in un teatro dell’anima.

Ho sentito vibrare ogni parola quando la voce di Servillo rivolgeva alla “brutta, sporca, lurida, chiavica città”, in quel rapporto viscerale di amore-odio che ogni vero napoletano conosce nell’anima. La figura di Rainer (Ranieri), questo amico-Giuda, mi ha ricordato tutte le ambiguità che Napoli custodisce nei suoi vicoli, quelle relazioni che sono carezze e graffi insieme. Come uno scugnizzo-gatto dalle carezze ambigue, Rainer guida il protagonista attraverso un labirinto di vicoli in salita, fino al lupanare, all’incontro con l’eunuco del bordello, in un percorso che è insieme fisico e spirituale.

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Toni Servillo, tra un passaggio e l’altro, ha condiviso ricordi personali del 1988, quando questa piece fu scritta per lui. Mi ha colpito particolarmente quando, con quella sua ironia afragolese che sa essere tagliente come una lama, ha demolito la retorica vuota dei “laboratori teatrali”, preferendo la verità cruda dell’esperienza vissuta. In quel momento, ho visto brillare nei suoi occhi la stessa luce che illumina i volti dei cantastorie dei bassi, quelli che sanno che ogni storia vera porta con sé il peso della vita vissuta.

La sua interpretazione ha navigato magistralmente tra l’italiano aulico e il napoletano viscerale, con quegli inserti in francese e spagnolo che Moscato usa come pennellate di colore su una tela già ricchissima. Il testo stesso è un organismo vivente che pulsa al ritmo dei vicoli, che si contorce come un’anguilla nelle mani di chi lo pronuncia.

Toni Servillo legge Enzo Moscato. In quella piccola sala, mentre ascoltavo il poeta che “depone sulla soglia la sua lingua” per poi ritrovarsi “solo, comm’è ssempe stato – da straniero, comm’è sempre stato”, ho capito che stavo assistendo a qualcosa di più di una semplice lettura. Era un rito collettivo, un’immersione nella Napoli-Medusa che ti attrae e ti respinge, ti abbraccia e ti ferisce. Una città che, come nelle parole di Moscato, è insieme madre e matrigna, santa e puttana, salvezza e dannazione.

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La dimensione del travestimento, che permea tutta l’opera, non si è limitata al piano letterario ma è diventata metafora della stessa esistenza napoletana: un continuo mascherarsi e smascherarsi, un gioco di specchi dove l’identità si moltiplica e si frammenta. E Servillo, con la sua presenza quasi sacerdotale, ha officiato questo rito di trasformazione con una grazia che solo i grandi attori possiedono.

La napoletanità è emersa cruda, spoglia, come un’anima messa a nudo sotto il cielo della città. Porto con me il peso di queste storie, come si porta una ferita preziosa, un segreto sussurrato tra i muri antichi che custodiscono, silenziosi, l’essenza più vera e dolorosa del nostro essere napoletani.

Enzo Moscato – L’angelico bestiario (include “Partitura) – Ubulibri.

“Quell’amico, Rainer, mi ha portato qui in questo stretto cunicolo di sole, al terzo piano arrampicandoci per un dedalo di vicoli e viuzze, tutte in salita, verso un monte, certo non il Tabor, ma faticoso come il Golgota, interminabile, come un voto di salute.

Ho deposto sulla soglia la mia lingua, la mia nobiltà che qui sono troppo vistose per non essere d’impaccio, per non fare di me facile preda anche delle mosche che qui sono particolarmente agitate e fameliche.

Quell’amico ha ragione di pensare che il mio male il mio essere straniero e perfino i miei sguardi o il portarmi, furtivo, il fazzoletto alla bocca se tossisco possono suonare a indecenza per chi mi ospita, per questo sedicente popolo del sole.

E dunque, vivo nella discrezione, o meglio, nel segreto di me più assoluto.

Da qui, da questa tana appena più sotto del cielo da questa feritoia di luce scavata nel brulicante e opaco ammasso di corpi tra questa odiosissima e accalorata plebe disposta verticalmente come una torre su su fino ai miei piedi, da qui mi è difficile scorgere la Baia. Impossibile.”

(Estratto da “Partitura” di Enzo Moscato)

Dio lo Sa – Atto II: la potenza narrativa di Geolier in un racconto con Caravaggio.

Toni Servillo legge Enzo Moscato

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