I bambini giocano a Roblox immersi in labirinti digitali kafkiani. Un viaggio senza destinazione finale.
Bambini giocano a Roblox. Mio nipote ha 7 anni, e quando lo osservo giocare a Roblox — il viso illuminato dallo schermo, le dita che danzano su mondi che si costruiscono e crollano in tempo reale — mi chiedo cosa stia imparando, senza saperlo, sul mondo in cui viviamo. Sono incuriosito ma anche preoccupato. Quelle stranezze che vedo sullo schermo — labirinti senza uscita, identità che cambiano come calzini, amicizie che nascono e muoiono in due minuti — non sono solo un gioco. Sono un riflesso distorto, quasi profetico, del nostro presente.
Il labirinto digitale
In “Doors”, (una modalità di gioco di Roblox), mio nipote corre attraverso stanze infinite, porte che si aprono su altre porte, mostri che appaiono senza motivo. “È tutto random, zio!”, mi spiega. Non c’è una mappa, non c’è un traguardo. È un labirinto kafkiano in versione arcade, ma lui non lo vive come una prigione: è un’avventura.
Eppure, mi domando: non assomiglia alla nostra vita online? I social network sono algoritmi che ci guidano in corridoi invisibili, le notizie si moltiplicano in stanze chiuse, le password e i codici ci fanno sentire come K. ne “Il Castello”, che bussa a porte che non si aprono mai. Mio nipote, però, ride mentre si perde. Forse è la differenza tra chi è nato nel labirinto e chi ci è finito dentro.
I personaggi di Roblox sono come fantasmi di Lego: senza età, senza sesso, senza storia. Mio nipote oggi è un robot, domani un unicorno, dopodomani un cactus con le scarpe. Cambia pelle come noi cambiamo status su WhatsApp. Beckett avrebbe adorato questa libertà: i suoi personaggi — Vladimir, Estragon, Hamm — sono esseri senza radici, sospesi nel vuoto.
Ma c’è qualcosa di più: in Roblox, l’identità non è una prigione, è un gioco. Mio nipote non si chiede “chi sono”, ma “cosa posso diventare”. È un esperimento continuo, e forse è così che i bambini di oggi vedono il sé: non come un’anima fissa, ma come una collezione di avatar, emoji, nickname. Tutto galleggia tra l’essere spaventoso e…diverso.
Relazioni ambigue: Pinter in emoji
Ieri ho visto mio nipote collaborare con uno sconosciuto per risolvere un enigma in “Jailbreak”. Si tratta di una “variante” di Roblox in cui i giocatori possono scegliere di essere poliziotti o criminali. Cinque minuti dopo, lo stesso sconosciuto lo tradiva rubandogli un oggetto. Lui ha riso, ha cliccato su un’emoji arrabbiata, ed è ripartito. Mi è venuto in mente il teatro di Pinter, dove le alleanze si spezzano con una battuta, e un sorriso può nascondere un coltello.
Ma su Roblox, il tradimento è un gioco. Le relazioni sono veloci, liquide, senza conseguenze. Nessuno si offende davvero, perché nessuno è davvero sé stesso. È un allenamento all’ambiguità, forse necessario in un’epoca in cui le nostre conversazioni sono sempre più ridotte a like e sticker.
So che accostare Roblox a Kafka o Pinter può sembrare esagerato. Non voglio trasformare un gioco per bambini in una lezione di filosofia. Eppure, osservando mio nipote, mi sono reso conto che quelle opere non parlano solo del passato: anticipano il nostro rapporto con la tecnologia.
Bambini giocano a Roblox. I labirinti di Roblox sono gli stessi in cui ci perdiamo ogni giorno online. Le identità fluide sono quelle che curiamo su Instagram o TikTok. Le relazioni ambigue sono quelle che viviamo nelle chat di lavoro o nei commenti sui social. Roblox non è un’eccezione: è un laboratorio, un luogo dove i bambini sperimentano — in un modo che io trovo abbastanza strano — dinamiche che per noi adulti sono spesso fonte di ansia.
La saggezza antica nel mondo moderno
Mio nipote è lì, concentratissimo sullo schermo di Roblox, con le dita veloci sui comandi. Mi chiedo come questi giochi virtuali stiano cambiando il suo modo di vivere l’infanzia. La sua eccitazione è così sincera che mi scalda il cuore. Però non riesco a non pensare ai rischi di questo mondo digitale: è pieno di opportunità, ma anche di trappole. La domanda vera è: saprà distinguere ciò che conta davvero da ciò che è solo apparenza?
Nella filosofia Vedanta c’è “Sat”, la realtà che dura, e “Asat”, l’illusione che svanisce. I videogiochi sono divertenti, ma non vorrei che confondesse quella luce artificiale con la vera gioia. Per questo cerco di bilanciare: lo lascio giocare online, ma gli propongo anche altro. Corriamo in giardino a calciare un pallone sgonfio, gli mostro come si scoprono mondi invisibili col microscopio, suoniamo insieme il cajon e quell’handpan che sembra avere dentro il suono del mare. Parliamo in spagnolo e inglese, ridendo dei nostri errori. Voglio che capisca che la felicità non ha bisogno di like o premi virtuali: sta nelle cose vere, quelle che si toccano e si condividono.
Ha solo 7 anni, c’è tempo. Ogni giorno è una scoperta: una lucertola da osservare, una canzone da inventare, una corsa sotto la pioggia. Forse il segreto è proprio questo: non vietare la tecnologia, ma mostrargli che la realtà può essere ancora più sorprendente. Non imporgli il sentiero da percorrere, ma stimolarlo affinchè egli decida naturalmente di seguirmi nel cammino. Crescere insieme, passo dopo passo, trovando l’equilibrio tra schermi e mondo tangibile. Senza paura, ma con gli occhi bene aperti.