Racconti di Napoli: Magia e Surrealismo a Posillipo. Per celebrare l’inizio del nuovo anno, ho composto un racconto sulla magia delle sorprese.
Racconti di Napoli.
Vi presento “Fuori”, il mio nuovo racconto. L’ho scritto pensando alle soglie – quei momenti in cui ci fermiamo al limite di ciò che conosciamo. Scrivere di trasformazione mi è sembrato giusto per l’inizio di quest’anno, quando tutti ci troviamo davanti a porte ancora chiuse. Questa storia è nata dal chiedermi cosa ci sia oltre i nostri ritmi quotidiani, oltre i porti sicuri che costruiamo. Come forse capita anche a voi, a volte intravedo qualcosa di straordinario che brilla attraverso le crepe della routine. Quindi vi offro queste parole su quello spazio dove il familiare e l’ignoto si incontrano, dove la realtà inizia a sognare. Buona lettura.
“Fuori”
Sotto il pelo dell’acqua, il mondo gorgoglia in onde concentriche. La Jacuzzi emette un respiro di bolle che danzano intorno alla piletta cromata. “Che vuole questa musica stasera”, la voce di Peppino Gagliardi si diffonde nell’aria, note liquide che si fondono con le sfere d’aria.
L’acqua accarezza le gambe immerse. Una goccia dal rubinetto genera cerchi perfetti. Tonfi sordi penetrano dalla terrazza. Lei resta immobile, occhi chiusi, mentre la musica avvolge la stanza.
Il seno emerge appena dall’acqua, piccolo e delicato come quello degli angeli del Bernini. Altri tonfi, più insistenti. Gli occhi si aprono, il corpo si solleva dalla vasca. La schiuma bianca scivola come latte nell’anfora greca dei suoi fianchi, versato lungo la linea delle natiche, culminando in una dolce biforcazione.
Attraversa nuda la stanza, ogni passo un’impronta bagnata. Si muove con grazia felina nel sontuoso ‘appartamento a Posillipo, le cui finestre incorniciano il golfo. Nel salone, una testa di mammut a grandezza naturale pulsa di verde fluorescente nella penombra.
Da un terrazzo poco distante emerge la figura di un uomo che brandisce un forchettone sulla brace. Il petto villoso luccica di sudore, la pancia oscilla al ritmo dei suoi movimenti.
Si ferma al centro della stanza, nuda. Il bagliore dello smartphone illumina il viso mentre digita. Sullo schermo, lui scrive:
“La banalità rozza, l’orrendo, il prodigio, il surreale. Voglio tutto insieme a te! Te l’ho detto che sono fuori di testa no?”
Lei risponde, un sorriso sghembo:
“questa cosa mi piace… interessante! perché sono fuori anch’io “
“Titì, t’a magn a sasicce?” tuona l’uomo dalla terrazza.
Ancora un tonfo, stavolta più forte. Lo sguardo di lei si alza oltre la ringhiera e il respiro le si blocca. Un orso polare gigantesco, candido come una apparizione, si lecca una zampa con flemma aristocratica. I loro occhi si incontrano – due cerchi perfetti, scuri quelli di lei spalancati dall’orrore e dalla meraviglia insieme, profondi e neri quelli dell’orso.
Un gabbiano piomba sulla griglia e afferra una salsiccia. “All’anema è chi t’è mmuort!” urla l’uomo villoso, agitando il forcone verso il cielo.
Lei si avvicina all’orso in punta di piedi. I suoi glutei si contraggono ad ogni passo, una geografia carnale tipicamente meridionale.
L’orso solleva il muso verso il cielo e canta con voce carezzevole:
“Che vuole questa musica stasera
Che mi riporta un poco del passato
Che mi riporta un poco del tuo amore
Che mi riporta un poco di te
Un poco di te?”
Ma lei non lo sente più. Le onde del mare tracciano altri cerchi, echi infiniti di un universo dove anche gli orsi polari cantano Peppino Gagliardi, ma i culi restano meravigliosamente, irrimediabilmente terreni.