Cold Prison di Holly Heuser: una graphic novel psichedelica

Cold Prison di Holly Heuser: una graphic novel psichedelica. Heuser rende tangibile l’intangibile. Le sue tavole bilanciano pieni e vuoti, esplosioni di colore e spazi bianchi.

Ho divorato Cold Prison (Eris Edizioni) di Holly Heuser in un’ora e mezza, lasciandomi trasportare dalle note immaginifiche dell’album “Abraxas” di Carlos Santana. Il vinile girava ipnotico mentre mi immergevo nelle pagine vibranti di questa graphic novel visionaria. Le immagini mi hanno travolto come un’onda lisergica. Colori esplosivi, tecniche miste, collage improbabili. Materia grezza plasmata dalle mani dell’artista: biglietti del bus incollati sulle tavole, carte marmorizzate create ad hoc. Un tripudio sensoriale che bypassa la razionalità.

La trama è un pretesto: una direttrice umana su una colonia penale aliena. Ciò che conta è il viaggio interiore, l’esplorazione della psiche. Le parole sono frammenti ossessivi. “L’amore umano non era abbastanza” mi perseguita come un mantra. Il vuoto domina. Spazi alieni deserti e algidi. Vuoto interiore della protagonista. Vuoto cosmico che ci inghiotte. Le tavole respirano, alternando densità e rarefazione. Il silenzio visivo è assordante quanto le esplosioni cromatiche.

Non ci sono altri personaggi. Solo lei, senza nome. La sua mano che si ritrae, unico segno di vita. Il suo sguardo scruta realtà tangibili ma aliene. Una soggettiva straniante e ipnotica. Mi perdo negli interni caotici del pod. Gli appigli narrativi scivolano via, lasciando solo sensazioni ed emozioni pure. Heuser bypassa la trama per arrivare al cuore dell’esperienza umana: solitudine, alienazione, ricerca di senso.

Il testo procede per ripetizioni ossessive. Cut-up alla Burroughs che frammenta e ricombina pensieri. Un flusso di coscienza svincolato da logica e cronologia. Il tempo si dilata e contrae come in un trip. Echeggiamo temi femministi e di genere. L’autodeterminazione come emancipazione. Lo spazio metafora di libertà e isolamento. Morte e vita in un abbraccio cosmico.

Le pagine scorrono, il confine tra me e la protagonista sfuma. Le sue emozioni diventano le mie, il suo sguardo il mio. “Cold Prison” celebra la presenza dell’assenza. Il vuoto non è solo tema, ma personaggio. L’isolamento della protagonista, gli spazi desolati – tutto converge in un’assenza che paradossalmente riempie l’opera di significato. Questo vuoto è fisico, emotivo, esistenziale. La protagonista lotta contro un’assenza interiore che cerca disperatamente di colmare. Forse perché nulla può realmente riempire quel vuoto cosmico che portiamo dentro.

Heuser rende tangibile l’intangibile. Le sue tavole bilanciano pieni e vuoti, esplosioni di colore e spazi bianchi inghiottenti. Ogni elemento sembra fluttuare in un vuoto infinito, come materia dispersa nel cosmo. L’assenza di narrazione lineare, dialoghi, interazioni tra personaggi contribuisce a questa celebrazione. È un invito a confrontarci con i nostri spazi vuoti, con le parti inespresse di noi.

Eppure in questa assenza troviamo una presenza potente. Quella della protagonista, certo, ma anche dell’artista stessa, manifesta in ogni tratto e scelta. Il vuoto diventa specchio, riflettendo non solo la solitudine del personaggio, ma la nostra.

All’ultima pagina mi sento svuotato e pieno di qualcosa d’indefinibile. “Cold Prison” ha aperto uno squarcio nell’anima, invitandomi a esplorare i miei spazi vuoti. Ho viaggiato attraverso assenze e presenze, sentito il peso del vuoto cosmico e la forza della resilienza umana. Questo graphic novel trascende la storia illustrata. È un’esperienza viscerale, un viaggio nei recessi della psiche. Heuser celebra l’assenza come presenza, il vuoto come pieno, sfidandoci a esplorare ciò che temiamo in noi stessi. “Cold Prison” rimane con me, eco di vuoto e pienezza. Un’opera che sfida convenzioni per toccare qualcosa di profondamente umano e universale.

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