Waiting for Godot Beckett, la futile attesa di un cambiamento che non avviene

Samuel Beckett.

Waiting for Godot Beckett. Aspettando Godot, la futile attesa di un cambiamento che non avviene secondo le nostre aspettative. Approfondimento podcast con il Prof. Chakraborty, autore del saggio “Samuel Beckett as World Literature”.

Waiting for Godot Beckett. Aspettando Godot ha quasi settant’anni: l’irlandese Samuel Beckett pubblicò l’opera in francese nel 1952, e la rappresentò per la prima volta l’anno seguente al Théâtre de Babylone, a Parigi.  Vidi Aspettando Godot al Mercadante, più di dieci anni fa, in compagnia del mio amico Aronne, il solo col quale, a quei tempi, potessi condividere il piacere di un’opera simile. Spero i teatri possano riaprire presto e rimettere in scena questo capolavoro, che ricordo come un’immersione totale e violenta nel respiro, nella potente libertà della connaturata catarsi del Godot.

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Di seguito il nuovo episodio del podcast Cosmic Dancer , che ha visto la partecipazione di Thirthankar Chakraborty, Professore del Dipartimento di Arti Liberali dell’ Istituto Indiano di Tecnologia (IIT), Bhilai, India, e Craig Warren, direttore dell’Istituto Vedanta di Città del Capo, Sudafrica. Craig è stato allievo di Swami Parthasarathy presso la prestigiosa Vedanta Academy. L’argomento trattato è stato il Maya, l’illusione, nella filosofia Vedanta e nella famosa opera di Beckett “Aspettando Godot“. Il Professor Chakraborty, studioso e ricercatore di teatro inglese, è anche autore di un importante saggio dedicato a Samuel Beckett, intitolato “Samuel Beckett as World Literature”.

Vladimiro ed Estragone.

Waiting for Godot Beckett. Atto primo: due mendicanti, Estragone e Vladimiro, attendono al ciglio della strada l’arrivo del fantomatico Godot, il quale pare voglia impiegarli in qualche modo. Arriva Pozzo, un ricco castellano che porta a guinzaglio il suo servo Lucky. Pozzo parla, sproloquia, poi arriva un ragazzo. Godot non verrà più stasera, ma certamente domani, dice. Il secondo atto è praticamente identico al primo. Alla fine, il sipario cala su Vladimiro e Estragone che attendono ancora l’avvento di Godot. Ecco in sostanza cos’è Aspettando Godot. “Non c’è da meravigliarsi che, uscendo dal teatro, la gente si chieda cosa diavolo ha visto”, afferma Carlo Fruttero, traduttore per Einaudi della commedia di Beckett. L’Irlandese parte da un presupposto: quando si racconta “bisogna scegliere tra le cose che non valgono la pena di essere menzionate e quelle che lo valgono ancor meno”. “È la caricatura dell’introspezione, l’estremo spopolamento della recherche proustiana […]

Vladimiro ed Estragone – Aspettando Godot.

L’uomo di Beckett non riesce a trovare sè stesso.

Waiting for Godot Beckett. L’uomo di Beckett non solo non riesce a trovare sè stesso, ma addirittura non si cerca più […]. Le storie di Beckett hanno l’aria di simboli che non sanno più simboleggiare niente”, sottolinea ancora Fruttero. Beckett mette in scena una storia di cristallina assurdità in un momento storico convulso, ma stranamente immobile. La Seconda Guerra Mondiale era finita da pochi anni, il mondo si era rivoltato tra la consapevolezza degli orrori dell’Olocausto e l’abbaglio angosciante dell’era atomica. La Guerra Fredda era in pieno atto, questa guerra strana, statica, appunto, sospesa tra una pace melliflua, ristagnante come l’occhio di un ciclone, e l’onnipresente angoscia dell’estinzione. Aspettando Godot “potrebbe” raccontare questa sospensione. Nella figura ormai proverbiale del signor Godot la critica e il pubblico ci hanno visto di tutto: Dio, la Felicità, l’idea conclusiva, l’atto estremo, il sogno realizzato, eccetera, eccetera. “Stabilire chi è Godot […] ha poca importanza”, glossa Fruttero.

Samuel Beckett.

L’immobilità del tempo.

Waiting for Godot Beckett.La questione, credo, sia proprio “l’immobilità del tempo”. Vladimiro e Estragone stanno a quel ciglio di strada, mani in mano, sullo sfondo un campo, o così me lo ricordo io, come il margine di un quadro di Bruegel, mi verrebbe da dire. Attendono… che cosa? Forse quello che abbiamo atteso noi in questi sessanta giorni. Non lo sapevamo davvero cosa ci riservasse il futuro all’inizio della pandemia. C’erano l’infezione, la morte; la speranza di un cambiamento sostanziale di abitudini, costumi, metodologie di produzione e accumulazione. C’erano il ritorno all’affetto dei cari; l’aperitivo con gli amici (e molti si sono fissati con tenacia su quest’ultimo punto); l’amore nelle sue forme più complesse e disparate. Una cosa su tutte, però, ci ha fatto davvero sperare: il ritorno delle bestie per strada. Ognuno di noi ha ammirato le immagini dei delfini che nuotavano indisturbati nella laguna di Venezia, dei conigli che saltellavano per le strade di Roma, dei cervi che riposavano tranquilli, distesi nelle vie silenziose.

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Gli animali ci hanno fatto attendere Godot, e questo era un mondo meno inquinato, erano le acque cristalline persino nei canali di scolo, il buco dell’ozono finalmente sanato. Per un paio di mesi Godot è stato, insomma, lo spettro della Speranza stessa. Poi è accaduto qualcosa: abbiamo timidamente iniziato a fare capolino fuori la porta. Allora le strade si sono riempite un’altra volta, il Sarno è ritornato nero, le acque si sono sporcate di nuovo, esplosioni incontrollate hanno appestato e annerito l’aria. Ma non è la delusione il punto. Uscendo è mancato qualcosa. Restiamo malfermi, “a cocci”, per citare Zerocalcare.

Il timore del cambiamento.

Waiting for Godot Beckett. L’attesa è stata vana, perché quella primavera, quella rinascita che ci aspettavamo dopo la pandemia, non è arrivata. Beckett, insomma, aveva ragione. Aspettando Godot è la condizione umana depurata: una lunga, vana attesa che qualcosa accada mentre attorno ascoltiamo storie, congetture e aneddoti di come sarà il cambiamento. Ma per uscire dalla bruma della sospensione non basta soltanto agire. Neanche la trasformazione è esente dall’amarezza che, forse, non cambierà mai davvero nulla a questo mondo. Siamo esseri che temono come la peste il cambiamento. Siamo fatti per adattarci, non per accettare. Per due lunghi mesi abbiamo aspettato Godot rincantucciati nelle nostre case, pazienti e anche un po’ svampiti come Vladimiro e Estragone e, una volta in strada, continuiamo imperterriti ad aspettare. È la nostra condanna, tutto sommato: attendere che qualcosa accada mentre accade e lo facciamo noi stessi accadere. Forse. Forse è così. In fondo, Beckett rifiuta persino il senso di una conclusione. “Non c’è nessuna allegoria”, afferma Fruttero e l’Irlandese stesso sottolinea: “Non so perché abbia raccontato questa storia. Avrei potuto benissimo raccontarne un’altra.” Tutto qui.

Ogni storia attende invano il proprio Godot che alla fine non arriva mai.

È questo il disarmante nodo di Gordio della nostra umanità. Ogni storia attende invano il proprio Godot che alla fine non arriva mai. È così per Vladimiro e Estragone ed è stato così per tutti noi durante la pandemia. La verità, per citare Sebastiano Vassalli, è che esiste “un infinito numero” di attese possibili, tutte straordinarie, meravigliose e vane. Non resta che viverle, continuare a comparteciparne il miracolo, cercando di far meno noiosa l’attesa. Perché domandarsi quando arriverà Godot? È meglio ridere, e, alla fine, credo, ci dimenticheremo pure che stiamo tutti quanti Aspettando Godot.

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