Ugo Foscolo: ovvero Dottor Jekyll e Mr. Hyde. Straordinario autore. L’anima del poeta di Zante divisa tra il tragico Jacopo Ortis e lo sferzante Didimo Chierico.
Ugo Foscolo riassume, nella vita e nell’opera, quel che Stendhal disse del suo Julien Sorel, protagonista del romanzo Il rosso e il nero. La loro è la storia “dell’impressione del brutto su un’anima fatta per amare il bello”. La vita che menò Foscolo, in Italia e in Europa, è emblema della parabola esistenziale di tutti romantici. L’età napoleonica aveva fatto scorgere a questi uomini lo spiraglio di una nuova epica: un uomo, salito dal nulla, che per la sola forza della sua intelligenza e del suo braccio era arrivato a farsi imperatore. Napoleone restituiva a questi uomini il patetismo dei giganti elleni, degli eroi omerici redivivi. Il fulgido mondo antico, dopo secoli in cui gli uomini s’erano ricambiati senza soluzione come foglie sui rami nelle stagioni, rinasceva il tutto il suo splendore. La gloria, insomma, era di nuovo possibile, e non più destinata solo ai sangue blu, ma a tutti coloro che potevano dimostrare con il loro “spirto guerrier” la nobiltà della propria anima.
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Foscolo difendeva gelosamente la propria anima greca. Era nato a Zante, isola del Peloponneso; suo padre era veneziano, ma nato a Corfù, sua madre era ellena: c’era, quindi, in lui più del greco che dell’italiano. La sua vita assomiglia, e forse vuole proprio assomigliare, a quella del conterraneo Odisseo: un uomo che tocca tutti i luoghi e nessuno, “fuggendo di gente in gente”, che attraversa l’Europa come una scintilla nella notte, appicca incendi dove può, colleziona amori, dà e riceve botte. Un’attitudine familiare, in fondo, se pure il fratello Giovanni, ufficiale della Repubblica Cisalpina, si tolse la vita perché non potette saldare un debito di gioco.
Di come fosse davvero Foscolo, ce ne offre un ritratto lui stesso:
“Solcata ho fronte, occhi incavati intenti;
Crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto;
Labbri tumidi arguti, al riso lenti;
Capo chino, bel collo, irsuto petto:
Membra esatte; vestir semplice eletto;
Ratti i passi, il pensier, gli atti, gli accenti:
Prodigo, sobrio; umano, ispido, schietto;
Avverso al mondo, avversi a me gli eventi;
Mesto i più giorni e solo; ognor pensoso;
Alle speranze incredulo e al timore;
Il pudor mi fa vile; e prode l’ira:
Cauta mi parla la ragion; ma il core,
Ricco di vizi e di virtù, delira:
Morte, tu mi darai fama e riposo.”
“Avverso al mondo, avversi a me gli eventi”: la sintesi più lucida di questa esistenza. Foscolo era un irrequieto, “agitato trascuratamente”, dice lui stesso, “scontroso e aggressivo”, glossa Ferroni. Un uomo invischiato nei gloriosi aneliti della sua età e, al contempo, nell’oscura consapevolezza della vacuità del tutto, di quelle “orme che vanno al nulla eterno”, e risolvono presto il fondo d’ogni esistenza.
Così, anima inquieta ed eroica, è il suo Ortis. Il protagonista del romanzo epistolare che Foscolo pubblica “ufficialmente” nel 1802 (le precedenti edizioni non avevano ricevuto il suo nulla osta: pure i libri di Foscolo sono irrequieti), Jacopo Ortis, si ispirava alla figura di un certo Girolamo Ortis, studente di medicina morto suicida a Padova nel 1796. Il tradimento politico di Napoleone, che col trattato di Campoformio cedeva Venezia agli Austriaci, e la delusione sentimentale della bella Teresa, sono le cause che spingono all’estremo gesto il giovane Jacopo, nel quale “Foscolo trasferisce molti aspetti della sua personalità: le vibranti aspirazioni giovanili, l’anelito alla bellezza e alla libertà, lo scontro con la natura e la società.” Insomma, la lettura del Werther goethiano, le delusioni napoleoniche e la sua personale fuga dalle oscurità del nulla, spingono Foscolo a scrivere una storia lucida e intensa, in cui, forse, lo scrittore vorrebbe riconoscersi appieno.
Molti anni dopo, nel 1876, Richard Wagner rappresenterà per la prima volta il suo Crepuscolo degli dei, opera che pare riscoprire la tragica infelicità della generazione di Foscolo, nel momento in cui quell’età delle idee che è stata il XIX secolo si avvicinava al principio della fine. Ascoltiamo:
Ugo Foscolo, però, non si uccise mai. Morì, anzi, relativamente anziano, a Londra, nel 1827, assistito da una ragazza che pare fosse sua figlia, nella miseria in cui l’aveva ridotto il suo stile di vita moderatamente, ma fieramente sfarzoso. Proprio come Julien Sorel, Foscolo è, in fondo, un furbacchione. “Se ha bisogno di una maschera per fingere quello che non è, ne ha poi bisogno di un’altra per essere certo di non essere quello che finge di essere”, scrive Stendhal. Questa maschera si chiama Didimo Chierico. Se Jacopo è Dr. Jekyll, Didimo è Mr. Hyde. Il personaggio compare per la prima e unica volta nella Notizia intorno a Didimo Chierico, che introduce la traduzione di Foscolo (1813) del Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia di Laurence Sterne.
Didimo è un personaggio paradossale. Veste da prete, ma non è un prete, potrebbe sposarsi, ma non vuol farlo, perché a “chi non ha patria non istà bene l’essere sacerdote, né padre”. È un erudito, lettore accanito e onnivoro; è un pensatore, un erudito, ma ha avuto una giovinezza mondana, ha conosciuto le ristrettezze e la durezza della vita militare, e afferma che “la vera sapienza consiste nel giovarsi di quelle poche verità che sono certissime a’ sensi”. Ugo Foscolo ritrate un personaggio enigmatico. Didimo è un personaggio ironico, tagliente, scettico. Il suo scetticismo “corrode ogni valore, persino quello della poesia, a cui Foscolo mostra altrove di credere intensamente”, scrive Ferroni.
Il patetismo di Ortis, dunque, si annulla. Né eroismo, né fede altisonante, né ruggito. Didimo è l’opposto di Jacopo, rappresenta l’altra metà dell’anima di Ugo Foscolo, quella lucida, umoristica, che non si sarebbe mai ficcata un pugnale nel cuore. Pure la coscienza del nulla, che accomuna e assimila le due metà del frutto, con Didimo si fa lucida e quieta consapevolezza di un dato ineludibile, a quale né fiere né uomini arditi e assetati di gloria potranno mai opporsi: “L’umana ragione […] si travaglia su le mere astrazioni; piglia le mosse, e senza avvedersi, a principio, dal nulla; e dopo lunghissimo viaggio, si torna a occhi aperti e atterriti nel nulla: ed al nostro intelletto la SOSTANZA della natura ed il NULLA furono, sono e saranno sinonimi”.
Se nel ’76 Wagner metteva in scena il principio della fine, tanto tempo prima, nel 1791, quando Ugo, Jacopo e Didimo erano soltanto bambini, Mozart chiudeva il secolo dei lumi col Flauto magico, rammentando con fulgida ironia agli uomini e ai loro dei che il crepuscolo delle cose è, in realtà, solo l’annuncio della prossima aurora:
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