Gaza l’apocalisse é qui. Non è più un luogo, ma un epitaffio. Un cimitero di speranze, come lo definisce chi ha visto con i propri occhi…
Gaza, l’apocalisse é qui! “Un abominio dell’umanità“, questa la sentenza, non un’iperbole ma la lucida, agghiacciante constatazione di una realtà che ha superato le più cupe distopie. Ciò che si consuma sotto gli occhi del mondo non è la conseguenza di una calamità naturale, di un fato avverso e cieco. È, con disarmante e terribile chiarezza, il frutto avvelenato di scelte umane, di decisioni prese e non prese, di azioni e omissioni che hanno lastricato la via verso questo inferno.
Muri sbriciolati che urlano storie brutalmente interrotte, edifici sventrati come carcasse di giganti abbattuti, le cui ferite aperte sanguinano ancora il ricordo di vite vissute.
Un cane, scheletrico e solitario, che fruga con disperazione tra montagne di rifiuti, divenuti discariche a cielo aperto, è il muto testimone di una civiltà collassata su se stessa.
Le strade, un tempo arterie pulsanti di vita quotidiana, sono ora corridoi spettrali, percorsi solo dal lamento del vento che si insinua tra gli scheletri anneriti delle costruzioni. Interi quartieri, un tempo alveari di famiglie, di risate, di commerci, sono stati ridotti a un informe, grigio ammasso di macerie, lapidi silenziose di esistenze polverizzate. E in questo paesaggio di annientamento, un’immagine si imprime a fuoco nell’anima, più lancinante di qualsiasi altra: un padre.
“Un padre che avanza in bicicletta, la sua bambina rannicchiata nel cestino anteriore, un piccolo, fragile fiore in un deserto di cemento, disperazione e morte.”
Essi scivolano accanto a palazzi smembrati, testimoni muti di una furia che non ha conosciuto né pietà né discernimento. Questa è l’apocalisse, non quella delle profezie antiche, ma una catastrofe tangibile, respirabile, che ha il sapore amaro della cenere e il colore del lutto.
L’eco di quella definizione, “Un abominio dell’umanità“, si propaga tra le rovine di Jabalia, come di ogni angolo di questo lembo di terra martoriato. Non è un artificio retorico per scuotere le coscienze, ma la fotografia fedele di un baratro in cui l’umanità sembra aver scelto di precipitare.
Qui, nel Nord della Striscia, si assiste al sistematico smantellamento non solo di infrastrutture, ma della dignità stessa, della speranza, del futuro. Non un terremoto, non un’alluvione, ma una catastrofe inflitta, pianificata, perpetrata con una metodicità che gela il sangue.
“Gaza, l’apocalisse è qui.”
Arrancare tra ciò che resta è come camminare su un tappeto di sogni infranti, dove ogni pietra divelta sussurra il dramma di una casa perduta, ogni frammento contorto di metallo racconta di vite spezzate anzitempo. Il silenzio, innaturale e opprimente, è squarciato solo dal pianto lontano di chi ha perso tutto, dal rombo sordo di esplosioni che continuano a lacerare l’orizzonte, o dal cigolio disperato di quella bicicletta, assurdo e sublime simbolo di una resilienza che rasenta l’eroismo più puro, o forse la più disperata delle follie.
Comprendere come si sia potuti giungere a tale livello di devastazione richiede di andare oltre la cronaca immediata degli eventi, per addentrarsi nel complesso e doloroso mosaico delle cause. Le “scelte umane” menzionate nel grido di dolore che sale da Gaza non sono un concetto astratto, ma si radicano in decenni di conflitto irrisolto, di occupazione, di assedi, di fallimenti politici e diplomatici.
La situazione attuale nel Nord della Striscia è l’acme di una spirale di violenza che ha visto ciclicamente esplodere tensioni mai sopite, alimentate da narrative contrapposte e da una persistente mancanza di una soluzione politica giusta e duratura. Le cause immediate possono essere identificate in specifiche escalation militari, in attacchi e risposte che hanno progressivamente alzato il livello dello scontro, ma queste sono solo le manifestazioni più recenti di un problema strutturale.
La chiusura dei valichi, le restrizioni alla circolazione di persone e merci, la dipendenza quasi totale dagli aiuti umanitariesterni hanno creato una condizione di vulnerabilità cronica, un terreno fertile per la disperazione e il risentimento. Decisioni strategiche, militari e politiche, prese da tutte le parti coinvolte nel conflitto, hanno contribuito a trasformare Gaza in una prigione a cielo aperto ben prima che diventasse un cimitero.
L’assenza di prospettive per i giovani, la disoccupazione dilagante, il collasso delle infrastrutture di base come quelle idriche ed elettriche, sono tutti fattori che hanno eroso lentamente il tessuto sociale, rendendolo più fragile di fronte agli shock delle offensive militari.
La dinamica dell’azione-reazione, spesso sproporzionata e incurante delle conseguenze sulla popolazione civile, ha intrappolato milioni di persone in un ciclo perverso di sofferenza.
Le cause, dunque, sono stratificate: politiche fallimentari a livello locale e internazionale, l’incapacità di superare decenni di ostilità, e la progressiva deumanizzazione dell’ “altro“, che ha reso accettabile, o quantomeno tollerabile per alcuni, un livello di distruzione altrimenti inconcepibile.
Il peso delle scelte, identificare le responsabilità diffuse.
Di fronte a un “abominio dell’umanità“, la questione della responsabilità diventa ineludibile, per quanto complessa e scomoda. Le responsabilità dirette per le azioni militari che hanno causato la distruzione di infrastrutture civili e la perdita di vite innocenti ricadono sugli attori belligeranti, su chi ha dato gli ordini e su chi li ha eseguiti.
Il diritto internazionale umanitario stabilisce principi chiari sulla protezione dei civili in tempo di guerra, sulla distinzione tra obiettivi militari e beni civili, e sulla proporzionalità degli attacchi. Le macerie di Gaza sollevano interrogativi angoscianti sul rispetto di tali principi.
Ma la catena delle responsabilità non si esaurisce qui. Si estende a chi, per anni, ha alimentato il conflitto con armi, retorica incendiaria o sostegno politico incondizionato a una delle parti, senza eguale pressione per una risoluzione pacifica. Pesa sulle potenze regionali e internazionali che, pur avendone i mezzi, non sono state in grado, o non hanno voluto, esercitare un’influenza decisiva per fermare la violenza e imporre un percorso negoziale credibile.
Le istituzioni internazionali, nate dalle ceneri di guerre mondiali con la promessa di “mai più“, si trovano oggi a lanciare allarmi disperati che sembrano cadere nel vuoto, evidenziando i limiti della loro efficacia di fronte a interessi nazionali contrapposti e al cinismo del “calcolo politico“. L’indifferenza, o la rassegnazione, di una parte dell’opinione pubblica mondiale, l’assuefazione di fronte alle immagini di sofferenza che si ripetono, contribuiscono a creare un ambiente in cui tali atrocità possono continuare.
La responsabilità è anche di chi ha fallito nel costruire alternative politiche praticabili alla violenza, sia all’interno della società palestinese sia in quella israeliana.
È la responsabilità collettiva di un sistema internazionale che non è riuscito a prevenire questa catastrofe annunciata, nonostante i molteplici segnali di allarme. Il silenzio di fronte all’ingiustizia, la normalizzazione dell’orrore, diventano essi stessi una forma di complicità. Ogni attore, a diverso livello, porta sulle spalle una frazione del peso di questo disastro, e negarlo significa precludere ogni possibilità di apprendimento e di cambiamento per il futuro.
Umanità cancellata, la catastrofe civile e l’innocenza rubata dei bambini di Gaza.
L’impatto sulla popolazione civile di Gaza è una catastrofe nella catastrofe, una discesa agli inferi che colpisce con particolare ferocia i più vulnerabili. La descrizione del padre che pedala con la sua bambina nel cestino non è solo un’immagine toccante; è l’emblema di un’intera generazione a cui è stata rubata l’infanzia, il presente e, in molti casi, il futuro. I bambini, che secondo le convenzioni internazionali dovrebbero godere di una protezione speciale, sono invece le prime vittime di questo conflitto. Muoiono sotto le bombe, per le ferite, per le malattie, per la fame. Quelli che sopravvivono portano cicatrici indelebili, fisiche e psicologiche. Hanno visto cose che nessun bambino dovrebbe mai vedere: la distruzione delle proprie case, la morte dei propri cari, la paura costante dei bombardamenti. Il loro vocabolario, come amaramente suggerito, rischia di essere per sempre limitato a parole come “bomba”, “macerie”, “fame”, “orfano”, “sofferenza infinita”, “disperazione”.
La carestia, non più una minaccia imminente ma una realtà strisciante per centinaia di migliaia di persone, colpisce i bambini con effetti devastanti e a lungo termine sul loro sviluppo fisico e cognitivo. La mancanza di acqua potabile, il collasso del sistema sanitario, la distruzione di ospedali e scuole hanno creato una crisi umanitaria di proporzioni bibliche. Le malattie si diffondono rapidamente in condizioni igieniche precarie, tra sfollati ammassati in rifugi di fortuna che non offrono alcuna sicurezza. L’impatto psicologico è incalcolabile: traumi, ansia, depressione, disturbo da stress post-traumatico sono la norma, non l’eccezione. I bambini smettono di giocare, di sorridere, i loro occhi diventano troppo grandi, specchio di un orrore che li ha inghiottiti. La distruzione delle scuole non è solo la perdita di edifici, ma la cancellazione del diritto all’istruzione, l’annientamento delle speranze per un futuro migliore. Come potranno questi bambini, una volta cresciuti, immaginare un mondo diverso da quello di violenza e privazione che hanno conosciuto? L’impatto sulla popolazione civile è la misura più eloquente del fallimento morale di questa guerra. È la negazione stessa del concetto di umanità, dove la vita di un civile, e in particolare di un bambino, sembra aver perso ogni valore intrinseco agli occhi di chi scatena e perpetua la violenza.
Gaza l’apocalisse è qui. Questo luogo, oggi, è molto più di un’area geografica devastata. È uno specchio oscuro, infranto, puntato contro la coscienza collettiva del mondo intero. Ci mostra, con una chiarezza brutale, le conseguenze estreme del fallimento della diplomazia, del disprezzo per il diritto internazionale, della svalutazione della vita umana. È l’immagine cruda di un’umanità che sembra aver smarrito la propria bussola morale, capace di infliggere e tollerare sofferenze indicibili. Le macerie di Gaza non sono solo il risultato di una guerra; sono il monumento a un ordine mondiale incapace di proteggere i più deboli e di risolvere pacificamente le controversie. Il grido muto di quella bambina nel cestino della bicicletta, trasportata dal padre attraverso le rovine della sua infanzia negata, dovrebbe risuonare nelle stanze del potere, nelle piazze, nei cuori di ogni individuo. “Non è così che doveva andare.” Questa frase, carica di un’amarezza infinita, racchiude il senso di un tradimento profondo delle aspettative di civiltà. Ma è così…
E mentre il cane continua a scavare tra i rifiuti alla ricerca di cibo, mentre il padre continua a pedalare con il suo fardello di amore e disperazione, e mentre le macerie restano lì, monito perenne di una catastrofe evitabile, l’apocalisse ha trovato la sua dimora terrena. Ha il volto indimenticabile e straziante di questi luoghi.
Il silenzio che troppo spesso accompagna questa tragedia, l’indifferenza che permette il suo protrarsi, è forse questo, come suggerito, l’abominio più grande di tutti. Un silenzio che ci rende tutti, in qualche misura, responsabili.
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